I giornali americani di ieri pubblicavano in prima pagina, fianco a fianco, le dichiarazioni del presidente Bush sulla questione irachena e su quella nordcoreana. All’Iraq Bush ha detto bruscamente che č stufo di aspettare e che il tempo dell’attesa sta per finire. Alla Corea del Nord ha detto che č pronto a prendere una «iniziativa audace»: se il regime comunista accetta di disarmare, l’America č pronta ad aiutare con forniture di petrolio e di beni alimentari il suo «affamato Paese». A Bagdad ha promesso implicitamente la guerra; a Pyongyang ha offerto una soluzione pacifica. Sulle due maggiori crisi internazionali del momento esistono quindi politiche americane alquanto diverse. La cosa non sarebbe sorprendente se poco meno di un anno fa, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente Bush non avesse descritto l’Iraq e la Corea del Nord negli stessi termini: regimi tirannici che esercitano sui loro sudditi una intollerabile violenza e lavorano segretamente alla costruzione di armi di sterminio. Per quali ragioni gli Stati Uniti ritengono di dovere affrontare problemi eguali con politiche diverse? Ne esistono almeno due. La prima č militare. A differenza dell’Iraq la Corea del Nord č armata sino ai denti. Ha un milione di uomini in uniforme, una industria missilistica di prim’ordine, parecchie centinaia di cannoni schierati sulla sua frontiera meridionale contro la Corea del Sud e, forse, qualche rozzo ordigno nucleare. Mentre Bagdad puň compiere un gesto disperato (una bordata di missili su Israele, l’incendio dei pozzi di petrolio), Pyongyang puň scatenare una guerra regionale in cui verrebbero immediatamente coinvolti, con grave rischio personale, 37 mila soldati americani di stanza nella Corea meridionale.
La seconda ragione č politica. Quando parla alla Corea del Nord, Bush non puň ignorare che esistono nella regione altre potenze e altri interessi. La Cina, la Russia e il Giappone non vogliono che lo Stato di Kim Jong Il divenga una potenza nucleare, ma non vogliono neppure che una guerra rimetta in discussione gli equilibri della regione. E la Corea del Sud vuole soluzioni pacifiche, anche se lente e laboriose, piuttosto che scontri frontali di cui sarebbe la prima a fare le spese; insomma la Corea del Nord non piace a nessuno, ma č utile a molti ed č comunque un pezzo necessario del puzzle asiatico. Un’azione militare americana presenterebbe molti rischi e si scontrerebbe con il parere negativo dei Paesi della regione. L’America lo sa e ne tiene conto.
In linea di principio molte di queste considerazioni dovrebbero valere anche per l’Iraq. Ma nella questione irachena l’America sembra libera di muoversi con propositi piů bellicosi. Qualcuno potrebbe osservare che questo atteggiamento č giustificato dalla sua lotta contro il «terrorismo globale». Ma la complicitŕ fra Saddam Hussein e Osama Bin Laden č per ora una ipotesi non documentata. Occorre quindi chiedersi se non esistano altre ragioni e se la principale non sia la mancanza di una potenza, in Medio Oriente, capace di imporre agli Stati Uniti il rispetto dei suoi interessi e consigli. La potenza che non c’č č l’Europa. Divisi, i Paesi dell’Unione possono tutt’al piů, come il presidente francese e il cancelliere tedesco, fare una decorosa battaglia giuridica fondata sulle competenze dell’Onu e sulla necessitŕ di una seconda risoluzione. Ma non possono dire con fermezza all’America che gli equilibri mediorientali sono in ultima analisi equilibri europei e che nessuno ha il diritto di sovvertirli senza tener conto delle loro esigenze. E’ questa, credo, la lezione che l’Europa dovrebbe trarre dal confronto fra la questione irachena e la questione coreana.
Un po' d'ironia... Il Cavaliere, i telefonini e i giovani d'oggi
Il presidente del consiglio ha invitato i ragazzi a liberarsi «dalla dittatura dei telefonini»
Attentato a Medellin, in Colombia: bomba uccide 5 persone e ne ferisce 32
MEDELLIN - Cinque persone, tra cui un bambino di quattro anni, sono morte e altre 32 sono rimaste ferite, secondo l’ultimo bilancio, in un attentato compiuto con un’autobomba ieri a Medellin, nel nord-ovest della Colombia, e attribuito ai ribelli marxisti delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc). “Si tratta di rappresaglie delle Farc in seguito alle operazioni condotte dalle forze dell’ordine, che hanno portato all’arresto di 53 miliziani di questo gruppo a Medellin negli ultimi giorni”, ha affermato un portavoce del governo. Il presidente colombiano Alvaro Uribe aveva proposto ieri la creazione di una forza multinazionale per combattere “il problema colombiano, combinazione di narcotraffico e di terrore”.
E' stata la quinta autobomba esplosa in meno di 10 giorni in Colombia nell'ambito della guerriglia in atto da almeno 40 anni nel paese, guerriglia che ha fatto in questi anni migliaia di morti all'anno.
“We’ll Kill You If You Cry:” Sexual Violence in the Sierra Leone Conflict é il nome del rapporto pubblicato oggi da Human Righs Watch sulle violenze sessuali praticate in Sierra Leone durante il conflitto decennale del
Settantacinque pagine presentano le prove degli orrendi abusi contro donne e bambine in ogni regione del paese ad opera dei ribelli del Fronte Unito Rivoluzionario (RUF), come di altri ribelli, governatori e forze internazionali per il mantenimento della pace.
Peter Takirambudde, direttore esecutivo della divisione africana di Human Rights Watch ha reso noto che le vittime di violenza sessuale hanno urgentemente bisogno di aiuto per riacquistare salute e reintegrarsi nella comunitŕ.
Il rapporto di Human Rights Watch report, che č basato su centinaia di interviste a vittime, testimoni, ufficiali, descrive i crimini di violenza sessuale commessi innanzitutto dai soldati delle varie forze ribelli - RUF, il Consiglio Rivoluzionario di Forze Armate (AFRC), e i West Side Boys. Il rapporto esamina anche le violenze sessuali ad opera delle forze di governo e di milizie, cosě come delle forze di pace internazionali.
Durante il conflitto armato in Sierra Leone dal 1991 to 2001, centinaia di donne e bambine di tutte le etŕ, gruppi etnici e classi socioeconomiche sono state soggette a sistematiche e diffuse violenze sessuali, incluse violenze di gruppo e con oggetti come armi, ombrelli, accendini e pestelli. Questi crimini sono stati caratterizzati da una straordinaria brutalitŕ e frequentemente preceduti o seguiti da altri enormi abusi dei diritti umani contro la vittima, la famiglia e la comunitŕ. I ribelli hanno rapito molte donne e bambine, soggette a violenza, col pretesto di forzarle a lavori domestici, agricoli o a servire nei campi militari.
I ribelli hanno cercato di dominare le donne e le loro comunitŕ insidiando deliberatamente valori e rapporti culturali della comunitŕ, distruggendo i legami che tenevano insieme la societŕ. Bambini combattenti violentavano donne che per la loro etŕ potevano essere le loro nonne, i ribelli violentavano le madri incinte e che dovevano allattare e i padri erano costretti a guardare le loro figlie che venivano violentate.
Finora non ci sono state responsabilitŕ per le migliaia di crimini di violenza sessuale o altri terribili abusi dei diritti dell'uomo commessi durante la guerra in Sierra Leone.
"La guerra in Sierra Leone č diventato famosa negativamente per le amputazioni delle mani e delle braccia" ha detto Takirambudde. "La violenza non sessuale non puň essere visibile nello stesso modo, ma č sempre devastante".
Le Nazioni Unite hanno stabilito una Corte Speciale per la Sierra Leone (SCSL) e una Commissione di Riconciliazione e di Veritŕ (TRC) per studiare le violazioni dei diritti dell'uomo commesse da tutte le parti durante la guerra.
L'Human Rights Watch ha invitato sia lo SCSL sia il TRC a dare alla violenza sessuale e la schiavitů sessuale una massima prioritŕ e a studiare e a perseguire i crimini correlati come crimini contro l'umanitŕ o crimini di guerra.
L'Human Rights Watch ha inoltre sollecitato che il sistema legislativo del paese venga rivisto per assicurare che i crimini della violenza sessuale siano perseguibili.
La mancanza di attenzione alla violenza sessuale correlata al conflitto ha fatto sě che pochi programmi di assistenza siano stati promossi per le donne e le ragazze che sono state sottoposte alla violenza sessuale, compresa la schiavitů sessuale. Le sopravvissute vivono non soltanto con critiche conseguenze di salute fisica e mentale degli abusi sofferti, ma inoltre temono che continui la violenza sessuale non correlata al conflitto-relativa, in gran parte perpetrata nell'impunitŕ.
I gruppi internazionali e le organizzazioni non governative dovrebbero collaborare con il governo della Sierra Leone per stabilire i programmi (sanitŕ, formazione, alfabetizzazione dell'adulto, abilitŕ d'apprendimento, etc) che contribuiranno a riabilitare i superstiti della violenza sessuale.
Impariamo a rispettare gli altri. Se l'Europa non č piů il centro del mondo
Dire che il mondo č vario č un luogo comune, ma č questo il punto di partenza, perché la diversitŕ č una caratteristica fondamentale del genere umano, una caratteristica immutata con il passare dei secoli.
Eppure, nonostante questa diversitŕ appaia quotidianamente ai nostri occhi, la mentalitŕ umana continua a opporr resistenza a comprendere e accettare tale eterogeneitŕ. La nostra mentalitŕ rivela una tendenza assolutistica e standardizzante, richiede monotonia e uniformitŕ in ogni cosa e in ogni luogo, la nostra cultura e i nostri valori sono gli unici che contano. Riteniamo che siano i soli perfetti e universali, senza perň chiedere agli altri come la pensano.
Č proprio qui che sta la grande contraddizione, la contraddizione tra la sostanziale diversitŕ, obiettivamente esistente, e l’ostinato desiderio della mente umana di sostituirla con la visione di un mondo unificato, indiscutibilmente omogeneo. Quanti conflitti, incluso i piů sanguinosi, affondano le radici in questa inconciliabile contraddizione!
Com’era la situazione in passato? Senza andare troppo indietro negli anni, negli ultimi cinque secoli, dai giorni dei viaggi di Colombo, c’č sempre stato un certo “equilibrio disequilibrato” che ha caratterizzato la situazione culturale mondiale. Nel corso di questi ultimi cinque secoli il nostro pianeta č stato dominato dalla cultura europea e i suoi modelli, i suoi limiti e simboli sono stati criteri universali applicati a tutti. L’Europa ha governato il mondo non solo politicamente ed economicamente, la sua cultura č stata il punto di riferimento e metro di valutazione per tutte le altre culture.
Bastava essere vicini alla cultura europea, bastava essere europeo, nato o naturalizzato, per sentirsi il padrone, il signore del maniero, il custode del mondo. Per questo l’europeo non aveva bisogno di altre qualifiche, né di acquisire nuove conoscenze o di affinare mente e carattere. Ho ancora osservato questa tendenza negli anni Cinquanta e Sessanta in Africa e in Asia. Un Europeo che nel proprio paese d’origine era una persona qualsiasi, tenuta in scarsa considerazione, fors’anche incompetente, quando arrivava in Malesia o in Malawi, diventava improvvisamente un alto commissario, il presidente di una grande azienda, il direttore di un ospedale o di una scuola. I nativi obbedivano docilmente ai suoi ordini, ansiosi di assimilare le sue osservazioni e teorie. Nel Congo Belga, le autoritŕ coloniali crearono una categoria, i cosiddetti évolué, che comprendeva tutti coloro che avevano abbandonato la condizione tribale “selvaggia” ma che non meritavano ancora di essere considerati europeizzati. Gli évolué erano qualcosa a metŕ, una via di mezzo. Bruxelles caldeggiava la speranza che grazie agli sforzi, agli investimenti, alla pazienza e alla buona volontŕ sarebbero riusciti un giorno a scalare la vetta dell’ “Europeitŕ”, ossia le vette dell’umanitŕ. Nel suo splendido libro: Portrait du Colonisé précédé du Portrait du Colonizateur, Albert Memmi descrive il processo doloroso e umiliante a cui sono stati sottoposti gli évolué.
Il ventesimo secolo non č stato solo un secolo di sistemi totalitaristici e guerre. Č stato anche il secolo della decolonizzazione, di un grande processo di liberazione. Tre quarti degli abitanti della terra si sono liberati dal giogo coloniale e, almeno ufficialmente, sono diventati cittadini del mondo a pieno titolo. Non si č mai verificato un evento simile nel corso della storia, né mai si ripeterŕ.
Nel giudicare la decolonizzazione, l’opinione contemporanea si č focalizzata sugli aspetti politici ed economici, su questioni quali: i sistemi di governo nei nuovi stati, gli aiuti internazionali, i debiti o la lotta contro la fame.
Allo stesso tempo, il grande processo di liberazione dei paesi assoggettati ha rappresentato uno straordinario fenomeno di civilizzazione che ha segnato l’inizio di un mondo multiculturale interamente nuovo. Naturalmente, le differenze culturali sono sempre esistite. L’archeologia, l’etnografia, la storia tramandata oralmente o scritta ci hanno fornito per anni infinite prove della loro ricchezza e varietŕ. Ma in tempi piů recenti la dominazione della cultura europea č stata cosě prepotente che le culture non europee, quali quella araba e la cinese, si sono trovate in uno stato di torpore e ibernazione mentre la cultura bantu e quella andina sono state totalmente marginalizzate ed ignorate.
Il primo attacco a questo monopolio eurocentrico, a questa dilagante e quasi completa dominazione della cultura europea, ha avuto luogo agli inizi dell’era della decolonizzazione, precisamente alla metŕ del ventesimo secolo. Questo movimento verso l’acquisizione di pari diritti e il riconoscimento della loro importanza, del loro valore e della loro unicitŕ e della loro forza, č stato soffocato e contenuto per piů di quattro decenni dalla Guerra Fredda.
Eppure, nonostante i condizionamenti e gli ostacoli, queste culture non-europee, appena rivitalizzate e ancora debolmente radicate, sono riuscite a sopravvivere, a evolversi e prendere coscienza di sé. Come risultato, con la fine della Guerra Fredda, si sono dimostrate indipendenti e dinamiche tanto da poter passare allo stadio successivo, attualmente in corso che vorrei descrivere come lo stadio di una maggiore coscienza di sé, di un intensificato senso del proprio valore e di una palpabile ambizione a giocare un ruolo importante in un mondo nuovo, democratico, multiculturale.
Quali enormi cambiamenti hanno avuto luogo nel mondo al di fuori dell’Europa!
Un tempo, l’Europa, per mezzo delle sue istituzioni e dei suoi abitanti, era saldamente insediata in questo mondo. Grazie a questo, se si viaggiava fino ai piů lontani angoli del mondo, si aveva come l’impressione di non aver mai lasciato l’Europa. L’Europa era ovunque! Se atterravo a Morondova in Madagascar, trovavo un hotel europeo ad attendermi. Sull’aereo da Salisburgo a Fort Lamy, i piloti della compagnia di bandiera erano europei. In edicola a Lagos potevo comprare il Times di Londra o l’Observer. Queste cose oggi non sono piů possibili. A Morondova c’č solo un hotel, il Malagasy, i piloti sono africani e a Lagos si puň comprare unicamente la stampa nigeriana. I cambiamenti nelle istituzioni culturali sono ancora maggiori. Nelle Universitŕ di Kampala, Varanasi (Benares) o Manila i professori europei sono stati sostituiti dagli accademici locali, per la prima volta i libri in arabo hanno decisamente predominato al salone del Libro de Il Cairo.
Il termine “internazionale” ha un significato in Europa e un altro nel Terzo Mondo. Ad esempio, se guardo la pagina internazionale del telegiornale a Gaborone, la capitale del Botswana, mi troverň di fronte a notizie dal Mozambico, Swaziland, Zaire, niente di piů. Se lo guardo a La Paz, la capitale della Bolivia, i servizi tratteranno notizie dall’Argentina, dalla Colombia e dal Paraguay. Il mondo č diverso ed č inteso in modo diverso in ogni angolo della terra. Se non accettiamo questa semplice veritŕ č difficile comprendere il comportamento degli altri, i motivi e gli scopi delle loro azioni. Tuttavia, nonostante i progressi nei trasporti e nelle telecomunicazioni e i miti assai diffusi, la nostra reciproca familiaritŕ continua a essere superficiale, per la maggior parte inesistente. Un difensore della rivoluzione mediatica, Marshall McLuhan, credeva che grazie alla televisione il pianeta sarebbe diventato un villaggio globale. Oggi sappiamo che č difficile trovare una metafora piů falsa. Perché l’essenza di un villaggio č soprattutto la vicinanza e l’affinitŕ emotiva, una condivisione di calore umano, di intima familiaritŕ, una comunitŕ di esistenze ed esperienze condivise.
No, non viviamo in un villaggio globale, piuttosto in una metropoli globale, un magazzino o un deposito dove la “folla leonina” di David Riesman si accalca, una folla di gente indifferente, nervosa che si sfiora, che non vuole conoscersi o avvicinarsi. La veritŕ č che piů si stringono i contatti elettronici tra le persone piů si allontanano i contatti umani.
La presenza europea sta scomparendo da molte zone del pianeta. Il noto giornalista italiano Riccardo Orizio lo scorso anno ha pubblicato un libro intitolato Tribů bianche perdute. Viaggio tra i dimenticati in cui parla degli ultimi gruppi di europei da lui incontrati in Sri Lanka, Giamaica, Haiti, Namibia e Guadalupa. In genere si tratta di persone anziane e sole perché i giovani se ne sono andati e dall’Europa non arriva piů nessuno. Negli ultimi decenni, l’Europa e la sua cultura hanno attinto da zone che tradizionalmente appartenevano a culture diverse: cinese, indů, islamica e africana. Con la mancanza di interessi politici e soprattutto economici, l’Europa non ha ancora trovato nuove motivazioni per continuare ad essere presente e coesistere con queste civiltŕ. Il suo posto non č perň rimasto vuoto. Molte culture locali, autoctone, fervide e agguerrite la stanno giŕ rimpiazzando.
Durante gli ultimi tre anni, ho trascorso lunghi periodi in Asia, Africa e America Latina. Ho vissuto tra cristiani in America Latina, islamici in Asia, indiani buddisti e animisti di Puno e indů, tra gli abitanti della Guyana e del Sudan. Li avevo incontrati per la prima volta alcune decine d’anni or sono, quando a fatica iniziavano a sollevarsi da secoli di dipendenza. Cos’č che mi ha colpito? Cos’č che ha catturato la mia attenzione?
Questo: il loro atteggiamento ora č caratterizzato dalla dignitŕ, dall’orgoglio per la propria cultura e dal senso di appartenenza a una civiltŕ propria e distinta. Ormai non soffrono piů di alcun complesso di inferioritŕ, un tempo cosě ovvio e opprimente. Al contrario, un desiderio di essere rispettati ed essere considerati alla pari. Un tempo l’essere europeo mi garantiva innumerevoli privilegi. Continuo a trovare una calda accoglienza, ma ora non ho piů alcun privilegio. Una volta mi facevano domande sull’Europa, ora non piů. Ora sono occupati dalle loro incombenze e dalle loro preoccupazioni. Sono ancora un europeo, ma un europeo detronizzato.
Questa rivoluzione in fatto di dignitŕ e di riconoscimento del valore di sé č avvenuta velocemente, ma non improvvisamente, non da un giorno all’altro. Come ha fatto l’Occidente a non rendersene conto? Perché l’Occidente invece di considerare cosa stava accadendo nel mondo che aveva dominato per oltre cinque secoli ha ceduto alle tentazioni del consumismo e al fine di goderselo completamente si č isolato e si č chiuso in se stesso, diventando indifferente a qualsiasi cosa accadesse al di fuori dei suoi confini. Č questo il motivo per cui l’Occidente non č riuscito a capire che fuori stava nascendo un mondo nuovo: ieri colpito duramente e sottomesso, oggi sempre piů indipendente, orgoglioso, agguerrito nella lotta per la sua libertŕ. Il processo di isolamento dell’Occidente dai paesi poveri sottosviluppati č stato recentemente descritto dall’ottimo giornalista francese J.C. Rufin nel suo libro L’Empire et les nouveaux barbares. Rupture Nord-Sud. L’Occidente, scrive Rufin, vuole prendere le distanze dai “barbari”, vuole chiudersi come Roma all’interno di confini murati a calce o serrarsi in un regime di apartheid, dimenticando che oggi questi “barbari” sono piů dell’ottanta per cento dell’umanitŕ! La prima reazione alla rinascita che il Terzo Mondo sta vivendo č una presa di distanza da esso. Ma dove ci porterŕ questa strada di sospetto e malanimo, in un mondo colmo fino all’orlo di armi alla portata di tutti? Il separarsi e il chiudersi in se stessi non č quindi una strategia vincente. Che soluzione ci rimane? L’incontro? La conoscenza? Il dialogo? Questa non č una raccomandazione, č un dovere che la realtŕ di un mondo multiculturale deve affrontare. A questo proposito l’Europa si trova davanti a una grande sfida. Deve ritagliarsi un posto in un mondo in cui č sempre stata avvantaggiata dall’esclusivitŕ della sua posizione e dove ora invece si trova a dover convivere in una famiglia formata da molte altre culture che avanzano e si consolidano, ad esempio attraverso la progressiva emigrazione verso i paesi europei.
Questo nuovo ambiente culturale planetario puň dimostrarsi illuminante, benefico e fertile per l’Europeo, perché non č detto che l’incontro tra culture e civiltŕ diverse debba portare a uno scontro. Come dimostrano Marcel Mauss, Bronislaw Malinowki e Margareth Mead questo puň diventare un terreno di scambio, un contatto gradito, di arricchimento. George Simmel aggiunge che il processo fondamentale nella vita della societŕ umana č l’emergere dei valori nello spirito dello scambio. Lo scambio presuppone un clima confidenziale, di mutuo accordo, di comprensione e compromesso.
Questo offre all’Europa una nuova opportunitŕ. La forza della cultura europea č sempre stata la sua abilitŕ a trasformarsi, riformarsi, adattarsi; qualitŕ oggigiorno essenziali per giocare un ruolo importante in un mondo multiculturale. Č solo una questione di volontŕ, vitalitŕ e determinazione.
Gli intellettuali europei della prima metŕ del ventesimo secolo, si sono spesso interrogati sulla forma e la sostanza che la civiltŕ del mondo avrebbe assunto nel futuro. G.K.Chesterton sosteneva che questo era il dovere di ogni essere umano. Il mondo č uno solo e l’uomo non puň comportarsi come se stesse scegliendo alloggi da affittare. Nessuno puň farlo. Questo mondo, ha scritto, che lo vogliamo o no, č la nostra unica dimora ed č questo il motivo per cui si rendono necessari una “lealtŕ di base” e un “patriottismo planetario”.
In un libro degli anni trenta, intitolato Ludzie tera_niejsi a cywilizacja przszy_o_ci (La gente di oggi e la civiltŕ del futuro), Florian Znaniecki ha scritto “abbiamo di fronte un’alternativa. O fiorirŕ una civiltŕ mondiale che non solo salverŕ tutto il salvabile delle civiltŕ nazionali, ma porterŕ l’umanitŕ a oltrepassare anche i piů audaci sogni degli utopisti, oppure le civiltŕ nazionali si disintegreranno; ossia: anche se il mondo della cultura non andrŕ distrutto, i suoi sistemi piů importanti, i suoi modelli piů validi perderanno il loro significato vitale…”
Č questa la sfida che ci troviamo ad affrontare.
Traduzione di Cristiana Figone, da La Repubblica, 15 gennaio 2003 segnalato da una MenteLunatica alle 1:33 AM
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A proposito di Kapuscinski...
Premio Grinzane Cavour
Sabato 18 gennaio 2003
Torino - Teatro Carignano - piazza Carignano 6
Tel. 011 8100111
email sito Cerimonia di designazione dei vincitori delle sezioni: Narrativa italiana, Narrativa straniera, Autore esordiente, Internazionale e Traduzione.
Saranno presenti i vincitori: Ryszard Kapuscinski e Fernanda Pivano.
Una serata con un'ugandese Ho parlato per ore con Chiara stasera. Chiara č una ragazza ugandese che, grazie all'aiuto di un missionario italiano in Uganda e dell'Associazione Italia-Uganda, č venuta a studiare medicina in Italia lo scorso settembre.
E' di una dolcezza rara. Di quelle persone che ti verrebbe voglia di tenerle tutte in una mano e cullarle un po'.
Mi ha detto quanto sia difficile studiare biologia in una lingua che ha imparato solo pochi mesi fa...
Cinque anni fa, anche Aline mi raccontň d'aver dormito 3/4 ore a notte per un anno, per non rimanere indietro...
A volte Chiara avrebbe voglia di rinunciare a tutto, di tornare indietro... ma poi legge una poesia trovata chissŕ dove che dice di non abbattersi e ricorda a se stessa che tanti sacrifici un giorno le permetteranno di tornare nel suo paese e di realizzare il suo sogno, che, sin da bambina, č stato quello di fondare un orfanotrofio...
Ho sorriso, perchč io da bambina, vedendo Candy Candy, dicevo che un giorno avrei voluto avere una mia Casa di Pony piena di bambini... Ed ora?
Anche Chiara ama i bambini... Nel suo paese ce ne sono tanti, ovunque... ti vengono incontro e parlano parlano parlano anche se non capisci... Poi per strada ci si saluta tutti... in una tribů diversa dalla sua, c'č la tradizione d'inginocchiarsi davanti agli anziani... Chiara fa fatica ad accettare le distanze che ci sono qui... Le distanze, i limiti la intimoriscono...
Si abituerŕ sě... ma ha anche paura di abituarsi... Quando qualcuno del suo paese va in Europa a studiare e poi, finiti gli studi, torna indietro per realizzare qualcosa di buono, viene guardato con diffidenza da chi č rimasto... considerato quasi un "estraneo", non piů una della propria gente... Ed allora trova scarsa collaborazione e diventa tutto difficile...
Mi viene in mente il maestro de La scuola e la scarpa di Tahar Ben Jelloun... Tornato dall'Europa, va ad insegnare nella scuola del suo paese, ma non ci sono bambini in classe... Li cerca e infine li trova in una fabbrica di scarpe da ginnastica di una nota marca (per non fare pubblicitŕ, Nike)... Lavorano lě per un dollaro al giorno... Non ha importanza studiare, quando non hai di che mangiare...
"Ma con un dollaro cosa mangi?", chiedo a Chiara. "Nel mio paese con un dollaro riesci a comprare vivande per due giorni per una famiglia" "Ma davvero? Qui con un dollaro non compri neppure un gelato!" "Sě... lo so" dice Chiara e abbassa lo sguardo...
E' contenta stasera... Parla parla... E' sempre stata una chiacchierona, ma da quand'č in Italia, di solito, durante una discussione, si limita a sorridere, per paura... "Ma paura di cosa?" "Paura che non piaccia quello che ho da dire"... A volte si sente guardata in modo ostile, come se le volessero dire "Tu, con questa pelle nera nera, che ci fai qui?"...
Le ho parlato del mio mal d'Africa senza esserci mai stata ma averla solo vagheggiata grazie ai racconti di Aline del Camerun, Chloč del Burundi o a Ebano di Kapuscinski ed altre letture...
Ho parlato a Chiara di Chloč, che č stata qui tre anni, di sua madre Marguerite Barankitse, detta Maggy e del loro rischiare ogni giorno la vita per curare i bambini rimasti orfani o feriti durante le lotte tra hutu e tutsi...
"Ah sě, lě č bruttissimo... Durante i giorni del massacro, i morti arrivavano persino in Uganda galleggiando sul Nilo o sul Lago Vittoria... In quei giorni non potevi mangiare pesce e dovevi stare attento all'acqua che bevevi... Ci sono posti dell'Africa molto pericolosi... Dovrai stare attenta quando verrai... Ma se vuoi puoi venire con me quest'estate e stare un mese da me... Ti piacerŕ il mio paese"
Mi piacerŕ... segnalato da una MenteLunatica alle 1:17 AM
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mercredi, janvier 15, 2003
Gli Stati Uniti accusati d'ignorare le violazioni dei diritti umani nella loro guerra al terrorismo
Secondo il Rapporto annuale di Human Right Watch, pubblicato ieri, "il supporto globale alla guerra contro il terrorismo sta diminuendo parzialmente perchč gli Stati Uniti troppo spesso dimenticano i diritti umani nella loro condotta della guerra" e, in cambio di collaborazione, sorvolano sugli abusi compiuti nei paesi alleati, in Pakistan, Indonesia, Cina e in molte repubbliche dell'Asia centrale.
IRAQ, LA LEZIONE DEL 1991 Due guerre attorno a Saddam di Aldo Rizzo
Dodici anni fa, come oggi, mancavano quattro giorni all’attacco aereo all'Iraq, a cui avrebbe fatto seguito, il 24 febbraio, l’invasione da terra. Dodici anni dopo, la Storia sembra voler ripetere lo stesso percorso. Ma quanto vale il paragone tra questa nuova crisi irachena e quella che, tra il 1990 e il 1991, portň alla prima guerra del Golfo? Per certi aspetti, sembra un vero e proprio «replay». I protagonisti sono quasi tutti gli stessi. A Baghdad il cattivo Saddam e il suo vice, Tareq Aziz, che prova a fare la parte del buono. A Washington, il Presidente č cambiato, ma porta lo stesso nome dell’altro, alla cui catena di comando, del resto, appartenevano gli attuali vicepresidente e segretario di Stato, Dick Cheney e Colin Powell. Se dai personaggi, dalla loro fisionomia, si passa alla sostanza dei loro comportamenti, abbondano di nuovo le somiglianze.
Gli americani sono fermamente intenzionati, come dodici anni fa, a venire a capo della minaccia rappresentata dalla dittatura di Bagh-dad. E, come allora, gli iracheni reagiscono alternando aperture e durezze. Nella prima crisi, Saddam diede prova di un esasperante e feroce tatticismo, tra prese di ostaggi civili e la loro liberazione, tra tentativi di rabbonire l’America e altri d’indebolirla, mettendola contro i suoi alleati. Contemporaneamente, il Raiss rese sempre evidente che, se costretto, egli avrebbe affrontato la prova delle armi, in un «mix» di coraggio e d’irresponsabilitŕ. Allo stesso modo si comporta adesso. C’č tuttavia una grossa differenza. Allora esisteva, a disposizione dell’America, un clamoroso, ineludibile «casus belli». L’Iraq aveva invaso e si era annesso uno Stato sovrano, il Kuwait.
Ora il contenzioso č certo molto grave, ma non altrettanto evidente. Il tatticismo di Saddam č in conseguenza piů agevole, specie dopo aver consentito il ritorno degli ispettori. E’ piů che lecito il sospetto che egli nasconda armi di distruzione di massa; ma se non si riuscisse a trovarne tracce concrete? Su queste basi, Saddam ha giŕ ottenuto un risultato mancato nel 1991, una divaricazione tra gli Stati Uniti e l’Europa, mentre potrŕ risultare meno labile, nell'era del fondamentalismo islamico, una connessione con la «base» del mondo arabo. E c’č anche la Corea del Nord. Conclusione. Che, in questo contesto, Saddam accetti di mettersi da parte, appare ancora piů difficile che dodici anni fa. E tuttavia, essendo proprio la sua permanenza al potere la fonte primaria della crisi, č ad essa che va trovata una risposta. A differenza di dodici anni fa.
13 gennaio 2003 segnalato da una MenteLunatica alle 4:34 PM
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