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etcetera

     

mercredi, mars 26, 2003

 
Martiri americani di Enzo Mangini

"Io penso che abbia ragione il Corano", dice il tenente Lawrence (Peter O'Toole) al suo primo incontro con il principe Feysal ibn Saud: "Il deserto č come un mare in cui non pesca il remo. Gli arabi si spostano come vogliono, in questo mare. Avete sempre combattuto in questo modo e per questo nel mondo siete famosi". Saddam Hussein ha lanciato l'appello alle tribů beduine del deserto perché colpiscano le truppe angloamericane. Č la risorsa a cui ricorsero i turchi, durante la prima guerra mondiale, per fermare gli inglesi sbarcati a Bassora. Le tribů combatterono per i turchi, all'inizio, infliggendo agli inglesi perdite micidiali. Poi cambiarono linea: non piů in armi per l'impero ottomano, il califfato, lo stato musulmano, ma per l'Iraq, anche se allora era solo un'espressione geografica.
"Non siamo qui come conquistatori, ma come liberatori", disse il comandante supremo inglese quando le sue truppe entrarono a Baghdad, nel marzo del 1917. Arrivare lě, gli era costato novantamila morti.
Non si arriverŕ a tanto, ovviamente, per questa seconda "liberazione" dell'Iraq. Ma i caduti ci sono, ce ne saranno altri. I prigionieri, e tutto il resto.
C'č una cosa che mi chiedo, da quando questa guerra č cominciata e da quando ci sono state le prime vittime angloamericane. Tutti, cronisti della carta stampata e delle televisioni hanno parlato dello shock dell'America. Possibile che i generali non l'avessero messo in conto? No, non č possibile. Possibile che non avessero previsto, scegliendo la tattica che hanno scelto, con le truppe dei reparti logistici e delle retrovie esposti ai contrattacchi iracheni, che qualche ragazzo del Texas o del New Jersey sarebbe caduto, morto o prigioniero? No, non č possibile. Nonostante quello che i media avevano scritto per mesi, sulla campagna lampo, il Pentagono ufficialmente č sempre stato molto, molto cauto. Sapevano, sanno, i generali statunitensi, cosa vuol dire stirare le linee di rifornimento per 300 chilometri senza avere una protezione adeguata. Lo sa qualsiasi tenente di West Point, perfino qualsiasi sergente di plotone.
Allora, perché? Arrivare il prima possibile a Baghdad, certo, per ragioni politiche, per affrettare il crollo del regime dato per moribondo, per sollecitare gli iracheni alla rivolta, per spendersi successi fulminei con la propria opinione pubblica (specialmente i britannici). Tutto vero.
Ma, credo, anche per rompere il tabů che ha angosciato le operazioni militari statunitensi negli ultimi anni: zero morti. Se questa guerra non č l'ultima, ma la prima di una serie tendente all'infinito, i generali devono togliersi questo peso. Qualche vittima tra le truppe logistiche fa piů effetto di un carro armato distrutto o un pilota abbattuto. Sono morti meno "colpevoli". Sono il vaccino. Quando l'opinione pubblica avrŕ imparato ad accogliere le bare avvolte nella bandiera non con le proteste, ma con altre bandiere, allora partirŕ la carica. Non solo essere pronti a combattere, ma anche a morire per il proprio paese. Č un salto di qualitŕ. Verso il martirio.
 
Pace e guerra - Editoriale della rivista Cem Mondialitŕ dei missionari saveriani di Brescia di Arnaldo De Vidi

No, non c'č nulla piů meritevole di pianto dell'uomo, fra tutto ciň che respira e cammina sulla terra. [Omero - Iliade 17,446-7]

Hanno certamente ragione coloro che definiscono la guerra la condizione primigenia e naturale. Finché l'uomo resta un animale, vive per il combattimento, a spese degli altri, teme e odia il prossimo. La vita, quindi, č guerra. […] La pace non č una paradisiaca condizione originaria, né una forma di convivenza regolata dal compromesso. La pace č qualcosa che non conosciamo, che soltanto cerchiamo e immaginiamo. La pace č un ideale. [Hermann Hesse - Guerra e Pace].

Hesse presenta in sintesi i tre motivi per cui si fa guerra. Innanzitutto, l'uomo ama combattere e vincere, un po' come il cavallo che si esalta al fragore delle armi [se non fosse cosě non ci sarebbero tanti film cult sulla guerra]. Un secondo motivo consiste nella strategia di vivere a spese degli altri. "Esiste una razza di padroni e di soldati, e questa č la razza bianca. Da noi l'uomo del popolo č quasi sempre un nobile declassato, la sua mano pesante č piů adatta a brandire la spada che l'arnese servile. La natura ha dato poi vita a una razza d'operai, ed č la razza cinese che ha meravigliosa destrezza artigianale, ma nessun sentimento dell'onore… Esiste una razza di contadini, e questa č la negra…". Chi scrive cosě č J. E. Renan che le enciclopedie definiscono "filologo sottile, storico delle religioni e orientalista". Puň anche accadere che i popoli guerrieri lavorino, e potrebbero essere autosufficienti, ma per amore di splendore predano i beni altrui. Ieri c'erano le razzie e le guerre di conquista. Oggi siamo piů sottili: noi occidentali abbiamo montato un'industria, in cui il salario dei lavoratori del Sud incide solo per l'1% sul prezzo del prodotto finito. Gli americani colpiscono per l'accesso privilegiato al petrolio. Le multinazionali rubano legalmente i prodotti agli indios con la biopirateria... Qui il primo e il secondo motivo s'uniscono: "Qualunque volta č tolto agli uomini il combattere per necessitŕ, combattono per ambizione" [N. Machiavelli].
Un terzo motivo di guerra č [ahimč] la paura dell'altro. Chi č differente da me costituisce una minaccia: mi dice che č relativo ciň che per me č assoluto. Mi dice che la mia cultura non č la cultura, ma una tra mille. Accettare l'incognita di una vita differente mi spaventa: io ho elaborato la divisione tra sacro e profano e ritengo terroristi quelli che non fanno altrettanto. Li odio! Ma Hesse, completando il suo pensiero, dice che la pace č un ideale possibile. E noi sognavamo l'essere in uno stato di evoluzione giŕ prossimo alla pace. Ci ha svegliati una "dichiarazione di guerra preventiva". Dice Tahar Ben Jelloun: La sconfitta che si prepara per noi č quella dell'uomo precipitato nel caos, quel disordine del mondo in cui la forza espelle in maniera arbitraria i valori che si credevano universali. Quasimodo diceva: Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo.
Ma c'č una reazione inedita. Se per alcuni rimane il diritto di ridere [mai tanti programmi tv e libri di "gag" come oggi] e per altri rimane solo la preghiera; se alcuni, istruiti dai media e dalla paura, cercano di autoconvincersi che la guerra č giusta e che i buoni democratici sconfiggeranno i cattivi terroristi; per noi il primo atto č stato mettere l'arcobaleno al balcone. Molti benpensanti hanno gridato che una bandiera non risolve. E non occorreva che ce lo dicessero perché lo sappiamo bene. Tant'č vero che noi ci chiediamo: Quale sarŕ il prossimo passo? E speriamo che ci sia un prossimo passo perché le armi di distruzione di massa prodotte dall'occidente esistono. L'11 settembre 2001 non ha cambiato la storia dell'America; č il 20 marzo 2003 che puň cambiare la storia del mondo intero: basta industria bellica, basta sfruttamento e oppressione, basta commercio diseguale, basta ipocrisie, basta strumentalizare Dio. Dice il salmo: "Giustizia e pace si baceranno" [Salmo 84]. Occorre un [doloroso] disarmo bellico ma piů ancora culturale. Un'appartenenza nuova alla famiglia umana. Un mondo "villaggio globale" dove il rispetto sia servito ad ogni mensa. Dove la fraternitŕ, insieme col pane, il vino, il pesce, l'agnello… faccia il giro di tutta la mensa.
 
Corrispondenza da Baghdad dall'Abruzzo social forum del 25 marzo

Colpiti i ripetitori della televisione irachena, Iraq Tv, causando il blocco di due reti su tre della tv di stato. Numerosi feriti si possono contare tra tecnici della manutenzione in quel momento presenti in uno stabile adiacente. Due missili sono caduti vicino all‚Hotel Palestine senza apparentemente colpire alcun bersaglio.

E intanto sui cieli di Baghdad si č visto il primo „Drone". Si tratta di piccoli aerei telecomandati (non piů lunghi di 6/8 metri), ma
muniti di missili, che vengono utilizzati per „spiare‰il terreno prima dell'arrivo delle truppe di terra.
Si č visto e si č toccato, mi hanno riferito, poiché normalmente dovrebbe volare ad una altezza superiore ai 5.000 metri, perché questa volta č stato abbattuto. Centrato dalla contraerea con la „complicitŕ" di una incredibile tempesta di sabbia che ha letteralmente sommerso la cittŕ di una polvere impalpabile ed irrespirabile spessa almeno 5 centimetri.
E questa del „Drone" č una pessima notizia.
Vuol dire che probabilmente le truppe anglo-americane sono (relativamente) vicine ed il compito del Drone abbattuto era probabilmente quello di „vedere" con precisione l'area sud della cittŕ dopo i bombardamenti che, per 4 giorni e 4 notti consecutivi, l'hanno praticamente spianata. Aprendo di fatto alle truppe di assalto Usa ed inglesi l'ingresso nella capitale.
Torniamo ai ripetitori tv abbattuti: questi sono stati colpiti pochi minuti
dopo che la televisione irachena aveva dato la notizia piů terribile che si potesse immaginare, ma che in qualche modo si sapeva che prima o poi sarebbe diventata ufficiale: il numero totale delle vittime, tra civili e militari iracheni, durante i primi sei giorni di guerra d‚invasione si possono calcolare tra 1.500 e 2.000, comprendendo in questa orribile contabilitŕ tanto le vittime sotto i bombardamenti quanto i soldati uccisi in combattimento.
I feriti, sempre complessivamente tra civili e militari, sarebbero piů di
3.000.
Quindi la Tv ha annunciato che avrebbe fatto vedere i piloti dei caccia
abbattuti sui cieli di Baghdad sabato scorso, accreditando cosě patente di veridicitŕ a tutti coloro che sostenevano di essere stati testimoni oculari degli abbattimenti e del relativo lancio dei piloti con il paracadute sui tetti della capitale.
A questo punto sono stati colpiti i ripetitori e le trasmissioni si sono
interrotte. La cittŕ č deserta, solo vecchi camion militari continuano a trasportare truppe verso punti imprecisati delle periferie. Focolai di incendi sono ancora presenti un po‚ dappertutto e ben visibili di notte.
Questa notte, come mi dicono, fa freddo ed alcuni dei fuochi sono stati accesi da gruppi di cittadini per scaldarsi o per poter cucinare qualcosa di caldo.
Delle lancie e delle veloci barche vanno su e giů sui fiumi trasportando non si capisce cosa. E‚ la prima notte che avviene un movimento del genere.
Un free-lance ha smarrito il passaporto, ed al momento non possiede piů alcun documento di riconoscimento. E questo č un problema serio per lui. Primo perché non č in possesso di tutti i „documenti" ufficiali rilasciati alla stampa „ufficiale" Secondo perché teme che il ritrovamento del passaporto possa in qualche modo „certificare" la sua presenza a Baghdad senza che questa sia in regola con le procedure standard stabilite dalle autoritŕ.
Fino a che non si troverŕ una soluzione č stato convinto a rimanere nella casa, ospite da amici iracheni, dove si trova, cosě da non correre inutili rischi di essere „fermato" per un qualsiasi controllo di routine.
Incontro stasera tra colleghi europei con alcuni giornalisti iracheni che lavorano nella stampa della capitale.
Un incontro molto animato, tra il sentimento pacifista tipico dei colleghi europei, il desiderio e la determinazione di difendere la propria cittŕ fino ad ipotizzare di armarsi da parte di alcuni colleghi iracheni, ed altri invece che tutto sommato non vedono l‚ora di liberarsi di Saddam. Pur condannando con vigore la guerra e bollandola come imperialista.
Nel bel mezzo dell‚incontro č spuntato un foglio del Ministero della Difesa iracheno che un collega ha tirato fuori dalla tasca dei pantaloni. Ricordiamo tutti la famosa lista dei 45 paesi che George W Bush ha mostrato al mondo come alleati degli Usa nella guerra contro l‚Iraq (quella per intenderci dove era presente anche l‚Italia). In quell‚occasione, Bush e Colin Powell sostennero che tra i 45 paesi „amici" ve ne erano 15 che preferivano rimanere „anonimi".
Sulla lista del collega iracheno (su carta intestata del Ministero della
Difesa dell‚Iraq) erano presenti in bell‚ordine tutti e 45, divisi in due
parti: 30 + 15. E sopra la „mini-lista" dei 15 tutti hanno letto in inglese,
e ne sono testimoni oculari, la parola „confidential".
Quella che segue č la trascrizione completa della lista cosě come appariva sul documento del collega iracheno.
Una partita di „dama" con tanto di rivincita e „finalissima ha posto fine
all‚incontro. E ciascuno ha ripreso la strada, nella buia e spaventosa notte di Baghdad, per raggiungere la propria casa, l‚albergo, le stanze affittate dai privati.
Khaled, dopo la cena nuziale č „scomparso" con la sua giovanissima moglie oltre le tende che difenderanno per poche ore , fino all‚alba, la loro prima notte di nozze.
Che la notte sia leggera.

A domani
I 30 paesi che ufficialmente appoggiano la guerra contro l'Iraq
cosě come sono stati presentati esplicitamente dalla Casa Bianca:
Afghanistan - Albania - Australia - Azebaigian - Bulgaria
Cekia - Danimarca - El Salvador- Estonia - Georgia - Italia
Giappone - Sud Corea - Lettonia- Lituania- Macedonia - Olanda - Nicaragua Filippine - Polonia- Romania - Slovacchia - Corazia - Spagna - Portogallo Turchia - Thailandia - Gran Bretagna- Ucraina - Uzbekistan

I 15 paesi che pur appoggiando gli Usa hanno scelto la formula di non farlo sapere: Israele- Egitto - Giordania- Arabia - Saudita- Bahrein Kuwait - Oman, - Qatar - Emirati Arabi - Filippine - Singapore
Colombia - Etiopia- Eritrea - Canada
 
CHI FA LA GUERRA NON VA LASCIATO IN PACE


Sono cadute le illusioni di chi confidava in una guerra lampo e “pulita”. Questa č una guerra lunga, cruenta, devastatrice, che giŕ oggi produce nuovi conflitti nell'area, in tutto il Medio Oriente, nelle societŕ con la crescita dell'intolleranza, dell'odio etnico e religioso, del razzismo e dell'insicurezza.

Di fronte a questa tragedia, confermiamo il nostro obiettivo: fermare la guerra, subito.

Ci affianchiamo nella richiesta e aderiamo alla Campagna internazionale di convocazione straordinaria dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite perché condanni l'aggressione di Bush e dei suoi alleati.

Allo stesso modo, in Italia faremo il possibile per condannare e isolare il Governo che ogni giorno aumenta l'impegno del nostro paese nella guerra con atti concreti, come l'espulsione dei diplomatici iracheni su richiesta del governo Usa. E mentre partecipa di fatto alla guerra, il Governo si rifiuta di ottemperare ai suoi doveri di accoglienza verso i profughi di guerra.

Noi continueremo a fare il possibile perché il nostro paese prosegua nella rivolta morale e civile contro la guerra e la sua logica.
Faremo il possibile perché si esprima la piů grande solidarietŕ con le vittime della guerra e con i profughi di guerra, on una campagna permanente per il diritto d'asilo ai profughi, contro il razzismo, per i diritti di cittadinanza.
Faremo il possibile perché i cittadini non rimangano utenti passivi dell'informazione spettacolo di guerra, ma abbiano dati e strumenti per comprendere e giudicare i fatti, le cause, le conseguenze e le responsabilitŕ di questa guerra.

Lanciamo un appello perché prosegua e si estenda la mobilitazione diffusa, capillare, spontanea e articolata che in maniera straordinaria si č diffusa in tutta Italia in questi primi giorni di guerra.

Nelle prossime settimane la mobilitazione contro la guerra si articolerŕ in campagne permanenti da tradurre in azioni concrete: contro la guerra, per l’isolamento del governo degli Stati uniti e dei suoi alleati; contro la partecipazione italiana alla guerra voluta dal governo; contro l’uso delle basi, delle infrastrutture e dello spazio aereo per la guerra, contro le multinazionali di guerra; contro l’economia armata, la produzione armata e il commercio delle armi; per la solidarietŕ alle vittime di guerra e alla societŕ civile irachena; per il diritto d’asilo ai profughi, contro il razzismo, per i diritti di cittadinanza; per i diritti del popolo palestinese e del popolo curdo.

Alcune delle mobilitazioni giŕ decise si svolgeranno:

SABATO 29 MARZO:
GIORNATA NAZIONALE DI MOBILITAZIONE DIFFUSA "FERMIAMO LA MACCHINA DELLA GUERRA"
Nella giornata, a conclusione di una settimana di mobilitazione contro la guerra, si realizzeranno iniziative decentrate:

- contro il Governo della guerra;
- contro l'uso delle basi, dello spazio aereo e delle infrastrutture per la guerra
- contro l'informazione di guerra
- contro le multinazionali della guerra
- contro l'economia armata
- contro il razzismo di guerra


Le modalitŕ delle azioni e delle iniziative che si terranno il 29 saranno definite dai comitati locali contro la guerra, che si stanno riunendo in tutta Italia fra stasera e domani.
Mercoledě sarŕ reso noto il calendario delle iniziative previste in quella giornata su fermiamolaguerra.
 
UNO STRAORDINARIO MESSAGGIO CONTRO LA GUERRA

Il 20 dicembre 1998, mentre Bill Clinton e Tony Blair bombardavano l'Iraq, Howard Zinn ha ricevuto questo messaggio e-mail dall'Inghilterra:

Egregio professor Zinn, sono un cittadino iracheno rifugiato qui in Gran Bretagna per sfuggire alle brutalitŕ del regime di Saddam, che nel giro di due anni ha ucciso mio padre, un vecchio innocente, e mio fratello minore, che ha lasciato moglie e tre figli [...]

Le scrivo per farle sapere che durante il secondo giorno dei bombardamenti sull'Iraq un missile da crociera ha colpito l'abitazione dei miei genitori in un sobborgo di Baghdad. Mia madre, mia cognata (la vedova di mio fratello) e i suoi tre figli sono morti sul colpo.

Questa tragedia mia ha colpito al punto che non ho piů lacrime. Vorrei poter mostrare questi miei occhi e la sofferenza spaventosa che sto provando a ogni singolo [cittadino] americano e britannico. Vorrei poter raccontare la mia storia a quelli che siedono nell'amministrazione Clinton, alle Nazioni unite e al numero 10 di Downing Street. Per salvare Monica e Clinton, alla mia famiglia tocca pagare questo prezzo immenso. Mi domando chi mi risarcirŕ di questa perdita?

Vorrei poter tornare in Iraq a versare qualche lacrima sulla tomba di mia madre, che da sempre avrebbe voluto rivedermi prima di morire [...]
La prego di riferire questa mia storia a tutti coloro che ritiene siano ancora in grado di vedere la veritŕ con gliocchi e di ascoltare questa tragedia con le orecchie.

Cordiali saluti, dott. Mohammed al-Obaidi.



Mi pare che questo messaggio esprima con spaventosa chiarezza come Saddam Hussein e i capi del nostro governo abbiano molto in comune: entrambi stanno causando morte e sofferenza al popolo iracheno....



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(Tratto dal libro "Non in nostro nome" di Howard Zinn, pagine 41 e 42).
Howard Zinn č uno dei piů importanti storici statunitensi ed č uno dei principali riferimenti del pacifismo negli USA. Ex-aviere nella seconda guerra mondiale, attualmente č Professore emerito di Scienze Politiche alla Boston University.
 
Video sulla guerra in Iraq e proteste nel mondo su:
FreeSpeechTV
WorldlinkTV
Democracy Now
CartaOrg
.

 
Per saperne di piů sulla guerra in corso... [+] [+]
 
Quale prezzo per la vittoria di Vittorio Zucconi

Il sesto giorno fu il giorno della sabbia e del dilemma: espugnare Bagdad, ma a quale prezzo? Anche di un attacco nucleare, se Saddam usasse la bomba chimica? Il Pentagono non lo nega. E nel giorno del ghibli - che ha nascosto per qualche ora la guerra teletrasmessa, e inghiotte tecnologie, laser, satelliti e ingranaggi - ricompare lo spettro dell'Armageddon reciproca e si deve alzare George Bush, il condottiero finora un po' assente. Deve farlo per chiedere la prima rata di miliardi per finanziare la guerra - 74,7 miliardi - per rincuorare i suoi soldati che si avvicinano al cuore di tenebra di questo viaggio, la capitale. "Stiamo avanzando con sicurezza", la "nostra coalizione č compatta", "stiamo combattendo per rendere il mondo piů sicuro, libero e pacifico", naturalmente "non si puň sapere quanto durerŕ" il conflitto.

Ma non č il vento di sabbia a tormentare i comandi americani. E' il dilemma tremendo della battaglia finale che sta per cominciare e che deciderŕ non il risultato militare del conflitto, che č scontato, ma il suo esito politico, "il costo della vittoria", come lo chiama il New York Times, umano e politico. Bagdad, sě, ma a che prezzo? Pagare con molte vite americane e inglesi, per avanzare quartiere per quartiere, nel fuoco dei cecchini, degli irriducibili baathisti rimasti indietro a battersi? Radere al suolo la cittŕ, come l'aviazione e l'artiglieria potrebbero fare in poche ore, dovendo poi spiegare al mondo, e soprattutto al mondo arabo, che quella nuova Grozny č la pace e la libertŕ promesse?

O sperare che siano vere le voci da Bassora, che parlano di sollevazioni popolari contro il regime, e dunque entrare nella capitale tra baci di ragazze, lanci di fiori e di razioni alimentari, come Napoli, a Parigi, accolti dalla popolazione festante? E Saddam? Dovrŕ essere ucciso, impiccato per i piedi, trascinato in catene, perché la vittoria sia davvero vittoria?
"Tough business", affare duro, ammette il segretario Rumsfeld, accusando di impazienza un giornalista che gli chiede se l'invasione sia giŕ finita nella palude. Franks, il comandante dell'operazione, "ha preparato piani per rispondere a ogni evenienza con ogni mezzo", ci informa il Pentagono, "ogni evenienza". Il "prezzo di Bagdad" potrebbe essere spaventoso e per questo dovrŕ essere deciso dai due leader veri di questa coalizione che in realtŕ č solo un tandem, Blair e Bush, qui a Washington, dove il primo ministro britannico arriverŕ per far rivivere il mito di Roosevelt e Churchill. Il loro sarŕ un vertice tremendo, davanti a un tavolo di possibilitŕ spaventose.

I generali americani, scottati dalle "giornate dure" e dalla resistenza dei "boia chi molla" iracheni, sono per la guerra totale. Lo urban warfare, la guerra nelle strade, č esattamente quella che la dottrina del bombardamento "shock e terrore" voleva evitare e non ha finora evitato. "Non si puň fare la frittata senza rompere le uova", predicano Franks, il comandante di teatro d'operazione, Myers, il generale d'aviazione e i comandanti delle unitŕ al fronte che sanno bene come, nella "guerriglia urbana" tutto il vantaggio tecnologico e tattico delle loro unitŕ si annulli. Non č un segreto, a Washington, che i quadri dell'esercito siano molto preoccupati da questa guerra condotta con il freno a mano tirato, voluta dai politici. Una guerra, i quadri senior lo bisbigliano, con "una mano legata dietro la schiena", come 30 anni or sono in Indocina.

Ma Blair verrŕ qui proprio per perorare la causa della prudenza, della battaglia che "non sciolga il cane della guerra", come lui ama dire citando l'Enrico V di Shakespeare, perché pensa al dopo e sa che fare un deserto e chiamarlo pace non sarebbe quella vittoria politica piů importante della vittoria militare. "Ogni palazzo, ogni infrastruttura sbriciolata da quella preparazione di artiglieria e di bombardamenti dovrŕ essere ricostruita da noi, coi nostri soldi", dirŕ Blair a Bush, che giŕ deve vedersela con un Parlamento furioso per l'ennesima bugia raccontata alla vigilia dell'invasione, quando Powell, Rumsfeld, il suo vice Wolfowitz, il capo di stato maggiore Shinseki, sfilarono davanti alla commissione forze armate per giurare, con eroica faccia di bronzo, che "un cartellino del prezzo" non poteva essere appeso alla guerra. E ora si presentano con un cifra precisa al milione di dollari (e certamente falsa per difetto anche questa) 74 miliardi e 700 milioni.

Si rincorrono voci di un'ultima difesa da crepuscolo degli dei, di quelle famigerate "armi chimiche" pronte nel cuore di tenebra iracheno e non si capisce se sia terrore o speranza. Lo scoppio di un'ogiva caricata di gas toglierebbe ogni freno, ogni esitazione verso la guerra totale e senza quartiere. Ieri sera, al briefing del Pentagono, il generare Myers ha ripetuto che, se Saddam usasse le armi chimiche, "noi risponderemmo con ogni mezzo a nostra disposizione". Sappiamo tutti che cosa vuol dire, anche l'atomica.

Come diceva il generale Sherman, conquistatore del Sud nella guerra civile americana, "la guerra č sempre una cosa immonda, e non c'č mai modo di ingentilirla".

Repubblica
 
A Najaf uccisi oltre 300 iracheni di Mario Platero

Dopo le ultime giornate di dura trincea per le truppe americane nell'Irak meridionale, ieri č toccato al Pentagono respingere a Washington un'offensiva, questa volta dei giornalisti, preoccupati per i recenti sviluppi sul campo e per gli apparenti ritardi dell'azione militare alleata: «Č una campagna militare impostata male?». «Avete fuorviato il pubblico americano lasciando credere che sarebbe stato facile?». «Quanto si dovrŕ soffrire?».«Era davvero questa la campagna «shock and awe» che avevate promesso?». A rispondere c'erano il ministro per la Difesa Donald Rumsfeld e il capo di Stato maggiore dell'esercito Richard Myers, entrambi per la veritŕ realisti, ma molto ottimisti, senza troppi dubbi per come si stanno mettendo le cose per gli americani, e anzi irritati per una reazione della stampa giudicata troppo “esigente”. Per Myers, la «campagna militare in Irak č brillante», non č stata modificata e non si poteva impostare meglio. L'andamento della guerra soddisfa tutti i vertici delle forze armate americane che hanno partecipato alla pianificazione del conflitto, sia a Washington che al fronte. Per Rumsfeld, il tocco di realismo č venuto con una battuta: «Siamo piů vicini all'inizio che alla fine di questa guerra. E non vedo come si possano esprimere giudizi affrettati davanti ai risultati che abbiamo giŕ ottenuto». I risultati secondo Myers e Rumsfeld sono evidenti. In cinque giorni di combattimento le truppe americane sono avanzate per oltre 400 chilometri, hanno fatto prigionieri e si sono portate a ridosso di Baghdad. In tarda serata, infine, č stata ingaggiata la piů rilevante battaglia dall'inizio della guerra: a Najaf il Settimo Cavalleria Usa (reparto di carri armati) č stato attaccato, con razzi, dalla fanteria irachena senza provocare vittime. Secondo il Pentagono, i reparti Usa, nel rispondere al fuoco, avrebbero causato oltre 300 morti tra i nemici. La resistanza che hanno incontrato le truppe alleate era attesa: gli iracheni, soprattutto nella parte meridionale del Paese, non hanno schierato un ostacolo militare organizzato, ma hanno affidato operazioni disturbo a formazioni paramilitari che hanno condotto attacchi da “guerriglia”. Queste truppe avrebbero raccolto alcuni mezzi per lanciare attacchi sporadici. E da questi attacchi che si č avuta l'impressione sbagliata che la divisione fosse ancora attiva. Dal punto di vista dell'andamento generale della guerra questo tipo di attacchi costituiscono un disturbo, ma non un impedimento per le truppe americane: «Sapevamo che ci sarebbero stati e sappiamo che continueranno ad esserci fino a quando il regime non sarŕ caduto e questa guerra conclusa», ha detto Rumsfeld. Il segretario al Pentagono ha sottolineato che questi attacchi porteranno inevitabili perdite. Ma ha anche detto che fin dal primo giorno lo stesso presidente aveva detto che la guerra sarebbe stata «lunga e dolorosa piů di quello che alcuni possono anticipare». C'č anche la spiegazione per la differenza con il 1991: «Allora dovevamo semplicemente liberare il Kuwait. Il nemico era un bersaglio piů facile». Secondo Rumsfeld e Myers saranno invece piů impegnativi dal punto di vista militare gli scontri attesi con le sette divisioni della Guardia repubblicana: la piů temibile č la "Medina" che sta per essere attaccata dalla Terza divisione meccanizzata. «Non sapevamo e non possiamo sapere se questa guerra durerŕ giorni o settimane o mesi - ha detto ancora Rumsfeld - del resto non ho mai detto che tutto si sarebbe risolto in una passeggiata di cinque minuti. Se qualcuno l'ha pensato sono problemi loro». Č stato attraverso frasi come questa che Rumsfeld č apparso sulla difensiva. Del resto č innegabile che alcuni fra i vertici dell'amministrazione e fra questi il vicepresidente Dick Cheney, avevano detto in dichiarazioni precedenti alla guerra che si sarebbe trattato di una guerra brevissima e che il nemico si sarebbe arreso con facilitŕ. Č toccato alla Casa Bianca difendere Cheney e ribadire quanto aveva detto poco prima nella mattinata il presidente George Bush: «I nostri ragazzi stanno offrendo una performance magnifica, stiamo facendo progressi...ma ci vorrŕ tempo». Rumsfeld e Myers hanno anche portato dei fatti: soltanto ieri si sarebbero arresi 3.500 soldati iracheni. A ritardare gli americani perň ci si č messa anche la tempesta di sabbia che potrebbe continuare anche oggi.

IlSole24ore
 
Tre anelli per resistere (e la minaccia chimica) di Massimo Nava

Nella terra di Abramo e del paradiso terrestre, anche il non credente dovrebbe inchinarsi a questo scenario apocalittico che il dio della guerra ha preparato in vista della conquista di Bagdad. Come in un colossal biblico, il kahmsim , il vento del deserto, sembra un monito alla follia degli uomini, una rivolta della natura che prova a dire che il tempo per fermarci non č ancora scaduto. Il vento spazza con violenza la capitale, piega i palmizi, solleva nuvole di sabbia che vanno a confondersi con le nuvole nere delle trincee di fuoco e oscura il sole a mezzogiorno. Nella tempesta perfetta, la forza della natura si allea con gli effetti della guerra, il tonfo delle bombe non si distingue piů dai colpi tremanti che le raffiche infliggono alle cose e agli uomini. Soltanto il khamsin poteva rinviare di qualche ora o di qualche notte l’offensiva finale al cuore del potere di Saddam. La tempesta rallenta l’avanzata dei carri armati e degli elicotteri americani, giunta ormai a meno di ottanta chilometri dalla periferia, complica le comunicazioni, manda in panne motori e tecnologie, perché si infila negli ingranaggi come nelle gole arse dei soldati. Per la difesa di Saddam, la tempesta puň essere un piccolo vantaggio, perché agevola il piano predisposto dal regime fin dall’inizio della guerra: evitare il confronto in campo aperto, portare i marines sul terreno della guerriglia urbana, utilizzare a proprio vantaggio condizioni naturali meno congeniali al soldato americano, le raffiche di sabbia e il caldo torrido.
Saddam ha rivolto l’ultimo appello alla guerra santa, ha invocato il sostegno delle tribů dell’Iraq («Combattete con tutte le armi che avete, combattete a piccoli gruppi, colpite le loro avanguardie e poi ritiratevi») e ha schierato migliaia di uomini a difesa della capitale e del suo regno. Il regime negli anni scorsi aveva ingaggiato esperti e consulenti militari di Belgrado, per adottare le tattiche di mimetizzazione di uomini e materiali che consentirono ai serbi di resistere, per oltre 80 giorni, ai bombardamenti della Nato con perdite irrisorie.
Ci sono almeno 40 mila uomini pronti ad affrontare «gli invasori» casa per casa: la Guardia repubblicana, i feddayn organizzati dal figlio di Saddam Uday e migliaia di volontari, molti dei quali affluiti da altri Paesi arabi. Si tratta di una difesa ad anelli concentrici che ha evitato con l’astuzia di farsi massacrare in scontri con elicotteri dell’aviazione. Il primo anello cerca di colpire dove puň le colonne in marcia verso Bagdad. Il secondo č quello delle barricate e delle trincee urbane, ormai molto visibili in tutti gli angoli della capitale. Ministeri, caserme, obiettivi sensibili sono stati preventivamente svuotati: l’esercito di Saddam si č nascosto nei quartieri popolari e si prepara a trasformare ogni via in una trappola.
C’č poi l’incognita del terzo anello, quello che secondo l’allarme lanciato dal segretario di Stato americano Colin Powell, potrebbe decidere di difendersi impiegando gas e altre armi chimiche.
Esistono diverse variabili a questo scenario. La prima č che Saddam i gas non li abbia, ed č la piů confortante. La seconda č che gli americani non si avventurino in un’operazione urbana che trasformerebbe Bagdad in Mogadiscio. In questo caso, andremmo incontro a un assedio condotto solo con bombardamenti, con conseguenze devastanti per la popolazione civile e sul consenso dell’opinione pubblica alla guerra.
Ieri, i funerali delle prime vittime avvolte nelle bandiere irachene, sono stati un emblematico sussulto di rabbia e un’ennesima smentita all’idea che gli iracheni possano accogliere i marines con fiori e danze di benvenuto.
La terza č una sollevazione interna, che potrebbe ancora partire dall’immensa bidonville di Saddam City, l’area dove si concentra la popolazione di osservanza sciita. Gli sciiti, maggioranza del Paese, ma esclusi dal potere e piů volte bastonati da Saddam, dovevano essere l’arma in piů dell’invasione americana, una quinta colonna religiosa, decisiva per le sorti della guerra.
La tempesta di sabbia ha avvolto anche le ipotesi, ha spento il sole e fatto saltare l’elettricitŕ, lasciandoci ad aspettare la piů terribile notte dall’inizio della guerra. L’imminenza dell’attacco era percepibile dai traslochi temporanei delle troupes televisive. In queste ore, mentre anche la pioggia comincia a battere Bagdad, si puň soltanto cercare un riparo sicuro e smettere di raccontare che cosa succede lŕ fuori. Un amico iracheno mi fa vedere una vecchia grammatica di greco: polemos (guerra) ha la stessa radice di polis (cittŕ). E non č una grande consolazione.
Gli elicotteri Apache che il 7° Cavalleria (la colonna di carri armati intitolata al generale Custer) appoggiati dall’Aviazione e dai missili si sono aperti la strada verso Karbala, nel fianco sud di Bagdad, che č la porta d’ingresso all’aeroporto, ai ministeri e alla reggia di Saddam.
L’altro ieri, un missile ha sfiorato l’universitŕ, uno dei piů antichi atenei, dove i padri domenicani andarono a tradurre in latino il Corano e fecero tradurre in arabo la Bibbia. Ci fu anche il tempo del dialogo fra civiltŕ millenarie. Oscurando anche la memoria, la tempesta stasera č davvero perfetta.

Il Corriere

 
Il conflitto d’interessi del falco Perle di ENNIO CARETTO

Richard Perle, l’ideologo dei conservatori che fin dal ’96 caldeggiň la guerra contro l’Iraq, indossa due cappelli: uno di direttore del Consiglio della Difesa del ministro Donald Rumsfeld, l’altro di lobbista della Global Crossing, una Telecom di cui il Pentagono si serve da sempre, oggi anche in Iraq. Nella duplice mansione di Perle non c’č nulla di straordinario: in America si dice che la porta tra la politica e la finanza sia «girevole». Ma questa volta affiora il sospetto di un conflitto d’interessi: la Global Crossing, che nel 2002 fině in bancarotta e che ora č in amministrazione controllata, vorrebbe farsi acquistare dalla Hutchinson Whampoa, una societŕ cinese, e ha offerto a Perle 725 mila dollari se strapperŕ il «sě» a Rumsfeld. Un «sě» necessario perché in teoria il Pentagono non si dovrebbe valere di compagnie straniere. Ciň ha offerto all’ala pacifista del Partito democratico l’opportunitŕ di chiedere un’inchiesta sulle attivitŕ di Perle. C’č il potenziale di uno scandalo . Non solo. I guai di Perle hanno attratto l’attenzione dei media sui contratti per la ricostruzione dell’Iraq che il Pentagono sta stipulando con le aziende Usa, escludendo quelle straniere. Ne ha giŕ firmato uno da 5 milioni di dollari con la Stevedoring Services per il management del porto di Umm Qasr, e in questi giorni ne sta firmando altri di 900 milioni per la riparazione delle infrastrutture, uno ieri con la Halliburton, l’ex azienda del vicepresidente Richard Cheney. I media hanno protestato, il Pentagono ha ribattuto che per motivi di sicurezza le scelte vanno fatte in ambito americano, e che quando la situazione in Iraq tornerŕ normale le commesse internazionali fioriranno. C’č di che temere che dopo la guerra armata ne scoppi una finanziaria nella comunitŕ occidentale.

Il Corriere
 
QUELLA TENTAZIONE NE’-NE’ di FRANCESCO MERLO


Mai prima d’ora il sindacato, la grande Cgil, era stato Né-Né. Anzi, fu proprio grazie al sindacato e al suo contributo di sangue, che i vari Né-Né d’Italia vennero sconfitti, perché il sindacato, per sua stessa natura, č lotta, č conflitto istituzionalizzato, č uno stare al di qua e mai al sopra delle parti, sempre contro e mai Né-Né. E invece ieri Guglielmo Epifani ha rivendicato apertamente d’essere Né-Né, ha sostenuto che «non bisogna piů avere paura di dirlo: né con Bush né con Saddam». Dunque davvero adesso ci aspettiamo che si scusi e che ci spieghi, visto che stiamo parlando del sindacalista socialista e riformista Guglielmo Epifani. Stiamo parlando di Epifani e non di uno di quegli intellettuali che, non riuscendo a mettersi contro «i compagni che sbagliano», dicevano di stare «né con lo Stato né con le Br», i soliti ignavi che, per opportunismo, sceglievano di non scegliere, e Dante condannava a essere offesi per l’eternitŕ dai mosconi e dalle vespe. Al contrario Epifani č l’eccellenza del conflitto sociale. Non č un Né-Né qualsiasi. Davvero č possibile che il segretario della Cgil ieri abbia lasciato l’Occidente e sia diventato il signor Abdul Né-Né di Bagdad? Insomma Epifani rischia davvero di snaturare la Cgil immaginandola equidistante tra la civiltŕ occidentale e quella di Saddam, tra il nazismo islamico e la drammatica fatica di Tony Blair e dei laburisti inglesi, che sono uno degli elementi costitutivi dell’antropologia della classe operaia di tutto il mondo, e dunque anche dei sindacati italiani, certamente della Cgil. Epifani li tradisce se si fa Né-Né: né con il Labour né con Saddam. Il pacifismo non c’entra: cosě Epifani, magari involontariamente, si fa furiere e portatore d’acqua (politica) del terrorismo internazionale, del fondamentalismo islamico, a fianco del glorioso popolo iracheno, proprio come gli utili idioti di una volta.
Davvero nulla di peggio potrebbe accadere al sindacato italiano, in questo terribile momento. Nulla di peggio che smarrirsi, perdere la bussola, abbandonare la grande funzione di civilizzazione che sempre ha avuto, e nulla di peggio potrebbe fare all’Italia Epifani che mettere a rischio l’enorme contributo dei lavoratori italiani alla grande lotta per rendere migliore questo mondo.
E’ vero che c’č, piů in generale, qualcosa di curioso in questo sindacato di Epifani-Cofferati, che non č piů sindacato ma non č ancora partito. C’č una vocazione Né-Né che giŕ si svela in un piccolo dettaglio, e lo raccontiamo senza ironia, che regolarmente va a ingentilire i cartoncini di invito alle manifestazioni politiche dello stesso Cofferati. Immancabilmente su quegli inviti Cofferati č «il segretario uscente della Cgil», segretario che dunque esce ma non č uscito, perché uscire č una formula progressiva purché si compia in fretta. Altrimenti diventa regressiva. L’uscire, infatti, troppo somiglia all’entrare. Il segretario uscente č come quell’impiegato che in ufficio indossa sempre il cappotto e perciň nessuno capisce se sta entrando o se sta uscendo. Insomma un segretario che non esce e non entra č soltanto un Né-Né.
E poi questo snaturamento della Cgil sarebbe davvero il peggio che Epifani potrebbe fare ai pacifisti, e non solo al pacifismo del Papa, che č il pacifismo di tutti, speranza ecumenica internazionale nobilmente dettata, anzi troppo nobilmente dettata, perché deve misurarsi con gli uomini, con la loro ignobiltŕ. Il Papa ci ricorda che esistono astrazioni nobilissime che faremmo bene a frequentare. Ma i Né-Né che ne approfittano e marciano dietro la sua luce somigliano alle auto che si mettono sulla scia delle ambulanze ottenendo quella strada alla quale non hanno certamente diritto.
Ma, alla fine, il danno maggiore questa svolta della Cgil verso l’ignavia, se non si esaurisse solo in una sbandata, lo arrecherebbe a tutti gli altri pacifisti, a quelli che erano contro la guerra ma ora stanno comunque con l’Occidente di Blair, e mai potrebbero scegliere di non scegliere tra gli americani di Bush, di Kissinger e di Clinton da una parte, e la guardia repubblicana di Saddam e i terroristi dall’altra.
Il danno maggiore Epifani lo fa ai nostri generosi e appassionati ragazzi che manifestano in tutta Italia, con il cuore candido e puro. Ebbene, da questo momento, i nostri figli rischiano di diventare nelle piazze d’Italia gli scudi umani del signor Né-Né.

Il Corriere
 
I fedayn di Uday, arma segreta del regime iracheno - Mantelli neri e kalashnikov, sono temuti dalla popolazione per la loro crudeltà, di Mimmo Càndito

Quando li incontri per strada - e non č nemmeno facile, si fanno vedere assai poco - se sei cristiano ti fai un segno di croce e se sei musulmano sussurri un'invocazione ad Allah giusto e misericordioso e speri che t'ascolti. Perché i «Fedayn di Saddam» sono com'erano da noi quelli della X Mas, squadristi della violenza feroce e della bella morte. Gli somigliano perfino nei panni che indossano, di nero di pece e con la faccia coperta da un cappuccio, anch'esso nero. Tra le quattro o cinque forze paramilitari che sostengono il regime iracheno, i Fedayn (cioč i martiri) sono la formazione piů recente, ma anche quella piů esclusiva. Se i loro funerei omologhi di Valerio Borghese avevano pugnale e teschi, questi hanno invece ampi mantelli neri e kalashnikov sotto il braccio; e sfrecciano per le strade delle cittŕ irachene sui loro pick-up (anch'essi neri, naturalmente) con la stessa tracotanza d'una polizia che non deve rispettare nessuna regola se non la propria intoccabile onnipotenza. Nella battaglia di Bassora, comunque, sono stati tra quelli che piů aspramente, e con piů determinazione, hanno paralizzato la sicurezza dell'avanzata angloamericana. Li ha creati nel '95 Uday Hussein, il figlio primogenito di Saddam, che a quel tempo era ancora il probabile erede del Raěss e taglieggiava la vita di Baghdad con il gusto sadico d'un esercizio spregiudicato e illimitato della forza (ammazzň un paio d'uomini, fin che il papŕ si decise a «diseredarlo»). Uday li creň e li modellň davvero a propria immagine e somiglianza, dandogli potere, insindacabilitŕ sull'operato, diritto a intervenire dovunque e in qualsiasi momento. Ne fece un corpo scelto, un piccolo esercito di pretoriani chiamati a tenere rigidamente - e con qualsiasi mezzo - il controllo politico delle cittŕ. Sono 40 mila: questa, almeno, č la cifra che viene ripetuta piů spesso, perň non v'č documento ufficiale che lo confermi; qualcuno dice perfino 100 mila uomini. E hanno base nelle maggiori cittŕ dell'Iraq, soprattutto a Baghdad, inquadrati come una forza militare ma subordinati soltanto a Uday, non al partito Baath, non al ministero della Difesa. Hanno armi leggere, kalashnikov e razzi anticarro Rpg, perň utilizzano anche blindati simili a quelli dell'esercito regolare, i Btr-70. L'addestramento militare viene compiuto nelle caserme e nei centri di formazione della Guardia Repubblicana; ma poi, una volta terminato il periodo d'apprendimento, la loro dipendenza č legata esclusivamente agli ordini del loro comandante in capo, senza piů collegamento con la Guardia. I loro istruttori hanno infatti compiti militari, mentre ai Fedayn spetta il controllo del fronte interno. Cani sciolti d'una dittatura, praticano il loro lavoro con una crudeltŕ e una ferocia che terrorizzano la popolazione - che č poi l'obiettivo per il quale sono stati inventati da Uday. I Fedayn formano una banda omogenea, sono stati scelti tutti tra i componenti della tribů degli Al-Bu Nasir e vengono soltanto dalle zone di Tikrit e Al-Shaqat, che sono il «focolare» del regime di Saddam. E tra di loro vengono inquadrati anche gli «Ashbal» (i Leoncini di Saddam), adolescenti tra i dodici e i diciassette anni che fanno pratica di squadrismo in attesa di essere arruolati a pieno titolo. La fedeltŕ del Fedayn al potere, e a Uday, č considerata inattaccabile; in questi giorni, la dimostrazione data sul terreno, a Bassora, ne č stata una conferma impressionante. Approfittando del caos d'una cittŕ attaccata dagli invasori, mimetizzandosi tra la popolazione che nemmeno li saprebbe riconoscere, avrebbero potuto benissimo svestirsi dei propri panni e della propria identitŕ politica; e perdere per sempre, di fronte ai nuovi padroni dell'Iraq, la storia del proprio passato. Invece sono stati in mezzo alla battaglia, trasformandosi da poliziotti di regime in combattenti d'un esercito chiamato a difendere la resistenza d'una cittŕ assediata. Ora pattugliano le strade di Baghdad con la stessa determinazione che i loro compagni di Bassora hanno mostrato nel combattimento. Baghdad sente da vicino il fiato dei carri americani che l'assediano da Sud e i rischi d'uno sfaldamento della tenuta del regime sono molto alti. Fermare i tentativi di ribellione della popolazione auspicati dalle forze della coalizione č uno dei compiti «istituzionali» dei Fedayn. Ma se questo non accadesse, allora il tempo di Saddam sarebbe giŕ finito

La Stampa
 
Chi vince e chi perde la battaglia d’opinione di Stefano Folli


La battaglia che piů interessa l’Italia non č quella che si svolge nel deserto iracheno, ma quella che si combatte nell’opinione pubblica. E non c’č dubbio che finora il punto di vista contrario alla guerra č vincente: il pacifismo di vario colore, piů o meno anti-Usa, piů o meno soddisfatto nel constatare che le truppe angloamericane sono «nelle sabbie mobili», come titolava ieri Liberazione . E’ vincente nelle manifestazioni, nelle assemblee scolastiche, nelle fabbriche, nei mille sit-in, in televisione. Ed č vincente anche perché il punto di vista opposto, quello che sostiene le ragioni dell’America e di Blair si sente poco, forse non si sente affatto. La sferzante denuncia di Giuliano Ferrara sul Foglio («A che servono Forza Italia, An, Udc e Lega? A niente, o quasi, in circostanze in cui dovrebbero mostrare un segmento di spina dorsale, di sentimento politico e civile... non sono divisi, sono nulli i partiti di governo») ha smosso le acque, ma č dubbio che sia in grado di modificare una tendenza consolidata.
Di fatto il basso profilo del centro-destra nasce da una scelta precisa. Perché «le nostre posizioni - spiega Sandro Bondi, buon interprete del pensiero di Berlusconi - non sono semplici e scontate, bensě sofferte e problematiche». C’č infatti un nodo di fondo piuttosto intricato: «Conciliare la nostra convinta alleanza con gli Stati Uniti ai temi dottrinari della Chiesa». In altre parole, pesa la parola del Papa.
Ha pesato nelle settimane precedenti l’attacco, quando ha influito non poco sugli equilibrismi della posizione italiana; e continua a pesare oggi. Per cui gli esponenti del centro-destra, salvo eccezioni, esitano a fronteggiare l’opinione pacifista, timorosi di essere appiattiti nella difesa di Bush e Rumsfeld. L’effetto mediatico di questa linea č evidente: ben pochi, da destra, hanno voglia di contrastare a viso aperto, in televisione e altrove, le tesi anti-guerra e anti-Usa. Non a caso per molte settimane la voce piů squillante contro il pacifismo cosiddetto «a senso unico», cioč anti-americano, č stata quella di Marco Pannella. Per il resto, tra i politici, Fini, La Malfa, De Michelis, Selva e pochi altri. Oltre agli editoriali del Foglio e a certe analisi del Riformista .
Ai fini pratici, questo significa che il punto di vista filo-americano gioca quasi esclusivamente di rimessa. Talvolta tradendo imbarazzo. Come ieri, quando le dichiarazioni inusuali del presidente della Consulta hanno chiaramente colto alla sprovvista il governo. Ma si č scelto in sostanza di lasciar correre, di fare buon viso a cattivo gioco.
In fondo anche l’uscita del segretario della Cgil, Epifani («né con Bush né con Saddam»), ha provocato piů turbamento nel campo della sinistra che in quello della maggioranza. Salvo il presidente della Camera, che si dichiara «inorridito davanti a ogni forma di equidistanza tra il presidente americano e il dittatore iracheno».
E’ vero che Epifani ha spiazzato l’Ulivo, ha sparso nuovi dubbi in uno schieramento che nei suoi vertici (Fassino, Rutelli) vorrebbe non farsi trascinare verso la sponda anti-americana dei movimenti, nel segno di un’equidistanza insidiosa e anzi distruttiva per le ambizioni di una futura «sinistra di governo». Ma la parola d’ordine di Epifani raccoglie invece il consenso di una larga opinione che tende a radicalizzarsi (la stessa a cui guarda Cofferati). E forse spiega il perché di quella doppia manifestazione per la pace di sabato scorso a Roma. Con la Cgil presente nel corteo dei movimenti, lontano da quello dell’Ulivo.
Comunque sia, č un problema interno del centro-sinistra. La maggioranza, ossia il centro-destra, se ne sta alla finestra. Considera persa la battaglia d’opinione e incrocia le dita, sperando ancora in un conflitto breve. Il pensiero di Berlusconi e di Frattini č rivolto al dopoguerra. Quando forse si potrŕ coinvolgere l’Onu nella ricostruzione dell’Iraq. E si potrŕ recuperare il consenso popolare. Fino ad allora, il motto č: profilo basso e contenere i danni.

Il Corriere
 
Berlusconi: La guerra non c'è
di Stefano Benni

Cittadini italiani. Qui č Silvio W. Berlusconi che vi parla. Anche se la propaganda comunista e vaticana cerca di convincervi del contrario, i miei avvocati mi hanno rassicurato che: a) l'Italia non č belligerante

b) non solo non č belligerante, ma non č neanche in guerra

c) non c'č in realtŕ nessuna guerra

Non abbiamo mai concesso né basi né spazio aereo agli americani. Era giŕ tutto loro. Le basi americane sono da tempo territorio Usa a tutti gli effetti, occupano uno spazio grande come una regione e non sono ancora Stato Usa autonomo perché stanno decidendo per il nome: Italiaska o New Pizzland. In quanto alla spazio aereo, gli americani ci scorazzano giŕ da anni, basta pensare al Cermis o a Ustica. Vi posso assicurare che nessun aereo Usa parte per missioni di guerra dalle nostre basi. Alcuni portano in giro le bombe, perché a stare chiuse nell'hangar si arrugginiscono. Altri fingono di partire per confondere il nemico, a volte tornano, a volte restano nascosti in qualche garage o luogo appartato. Io ho due B 52 nel mio giardino a Arcore.

Non sono mai transitati sul suolo italiano treni con armi. Se qualcuno ha portato con sé un carro armato o un cannone, lo ha fatto a titolo personale, l'importante č che non lo abbia messo in mezzo al corridoio intralciando i passeggeri o il servizio ristoro. Abbiamo espulso i diplomatici iracheni non perché ce lo ha chiesto Bush, ma perché ai sensi della legge Bossi-Fini non avevano piů un lavoro, in quanto, come sapete, tutti gli sforzi diplomatici sono falliti.

Non abbiamo mai venduto armi agli americani. Agli iracheni sě, ma allora Saddam era un amico.

Non č vero che siamo giŕ in corsa per la ricostruzione dell'Iraq e stiamo arraffando le commesse. Io di commesse ne ho avute a migliaia alla Standa e nessuna puň dire che io le ho messo le mani addosso. Sono fedele a mia moglie anche se č una traditrice pacifista e secondo alcuni pettegolezzi attualmente č fidanzata con un certo Schopenauer.

Non siamo belligeranti, in quanto non c'č nessuna belligeratura in corso. E' semplicemente in atto l'operazione per disarmare Saddam. Non mi risulta che ci siano morti né tra i civili né tra i militari. Aprite la televisione e vedrete che nulla č cambiato: le solite sigle, le solite facce, i soliti conduttori, e gli esperti che giocano con le mappe e i soldatini. Si discute di Iraq, ma come si parla del brutto tempo o dei virus della polmonite, sono inconvenienti che un palinsesto non puň ignorare.Qualcuno con criminoso cattivo gusto, in un rigurgito Santoriano, ha mandato in onda scene di qualche film pulp dove si vedevano marines americani massacrati e civili iracheni morti. E' ovvio che simili cose non possono avvenire in una moderna chirurgica operazione di disarmo. Ho dato l'ordine a Gasparri di mettere durante queste scene il sottotitolo fiction, e il pallino rosso sullo schermo. Mi ha risposto: ci costerŕ un sacco di soldi dipingere il pallino su ogni televisore italiano. E' piů cretino di quanto credevo.

Ma insomma, cittadini italiani, ragionate! Vi sembra che se ci fosse la guerra il mio amico Bush andrebbe in vacanza nel suo chalet? Vi sembra possibile che un grande democrazia arresti millecinquecento persone a San Francisco perché manifestano contro la guerra? Mi si attribuiscono battute meschine sui pacifisti, che poi mi tocca di smentire. Ma io so bene che, non essendoci guerra, non ci sono pacifisti. E' un mistero per me cosa facciano quei milioni di persone in strada, con quella bandiera tutta colorata che sembra la maglia del Milan che ha fumato marijuana.Se ci fosse davvero la guerra, con tutti i missili che hanno tirato su Baghdad avrebbero ucciso Saddam. Invece eccolo lě che parla in diretta. Maledetto concorrente! E' uno dei pochi che in video č tronfio e bugiardo come me.Il migliore in televisione, comunque, č sempre George Wermacht Bush. Ha il carisma e la statura morale di un pupazzo da ventriloquo e ultimamente si č messo anche a fare il comico. Ha detto che l'Iraq deve rispettare la convenzione di Ginevra. Che i suoi prigionieri devono essere trattati umanamente, proprio come quelli di Guantanamo. Ha invocato anche il tribunale dell'Aia. Mancava solo che chiedesse l'invio di ispettori dell'Onu nella zona delle operazioni. Quando poi ha detto che bisogna rispettare il diritto internazionale, si sono sentite le risate dei cameramen e gli spari di Colin Powell che li abbatteva.

Riassumendo: l'Italia non č in guerra, non c'č nessuna guerra, non ci sono morti né da una parte né dall'altra, gli elicotteri inglesi abbattuti dal fuoco amico non sono eventi bellici ma incidenti dovuti alla congestione del traffico aereo, come a Fiumicino. Non ci sono manifestazioni sanguinose in tutto il medio Oriente, e il popolo iracheno, come ho giŕ anticipato a suo tempo, č entusiasta di questa pacifica invasione. Ci sono invece le armi chimiche e di sterminio di massa. Sono a Aviano, pronte a essere trasportate in Iraq nel caso gli americani non ne trovassero. Ci avete creduto? Ma siete proprio dei ingenui, era una battuta.

Sapete qual č la veritŕ? La vera arma di sterminio di massa sono io col mio governo di ipocriti, quello che vuole farvi credere che non sta succedendo niente. Abbiamo cominciato con lo sterminio dell'informazione, poi abbiamo intrapreso quello del diritto, ora ci proviamo con lo sterminio delle coscienze. Una nube di indifferenza, ecco la nostra arma chimica. Per il momento non ci riusciamo. Ma confidiamo nella tendenza degli Italiani a dimenticare in fretta, e in un pronto intervento dei servizi segreti contro il crescere del movimento pacifista. Perciň se vedete alla televisione immagini volgari di sangue e morte e bombardamenti, pensate che non sono vere, perchč la guerra moderna non fa morti. Sono semplicemente degli errori di sceneggiatura.

E adesso vi lascio, prima di andare via per il week-end devo discutere con Blair e Aznar sui nuovi oleodotti e sulla ricostruzione di Baghdad. Io ho proposto Baghdad due, un ridente complesso residenziale a pochi chilometri da Baghdad, in una localitŕ che si chiama Teheran. Ha detto Bush che ci pensa lui a sgombrarmi il terreno. E poi c'č il progetto di un ponte tra Messina e Amman, con un solo pilone a Creta. E per finire una fusione tra Mediaset e Lockeed, perché non c'č la guerra, ma stranamente in Borsa le azioni della fabbriche di armi triplicano. Misteri della finanza.

Italiani, state tranquilli. Niente sangue né dolore né lacrime. Strike & Awe non č un'azione di guerra e non vuole dire Sconvolgi e Terrorizza. E' un serial con due poliziotti, Strike il bruno e Awe il biondo. Me lo ha detto Frattini che ha studiato inglese con la Playstation. Io vi proteggerň, vi consolerň, vi rassicurerň, io sono la tempesta di sabbia che tutto nasconde, io sono l'operazione Forget&Fard. Credetemi. Non sta morendo nessuno. So prendermi le mie responsabilitŕ e non dico bugie. Ve lo giuro sui figli di Blair.

 
I comunicati stampa di Amnesty International dallo scoppio della Guerra in Iraq ad oggi

- IRAQ: L'AZIONE MILITARE RISCHIA DI PROVOCARE UNA CATASTROFE PER I DIRITTI UMANI E LA POPOLAZIONE CIVILE

- AMNESTY INTERNATIONAL, ICS - CONSORZIO ITALIANO DI SOLIDARIETA' E MEDICI SENZA FRONTIERE LANCIANO UN APPELLO PER LA PROTEZIONE UMANITARIA ALLE VITTIME DELLA GUERRA

- GUERRA: AMNESTY INTERNATIONAL CHIEDE AL GOVERNO DELLO YEMEN DI APRIRE UN'INCHIESTA SULLA MORTE DI ALCUNI MANIFESTANTI

- "COLPISCI E TERRORIZZA": AMNESTY INTERNATIONAL CHIEDE UN CHIARIMENTO URGENTE SULLE MISURE ADOTTATE PER PROTEGGERE I CIVILI

- DICHIARAZIONE DI MARCO BERTOTTO, PRESIDENTE DI AMNESTY INTERNATIONAL ITALIA, SULLE IMMAGINI DEI PRIGIONIERI DI GUERRA CATTURATI DALL'IRAQ

- IRAQ, BASSORA: NECESSARIO AFFRONTARE L'EMERGENZA UMANITARIA DELLA POPOLAZIONE CIVILE, CHIEDE AMNESTY INTERNATIONAL
 
La guerra di Saddam tra Davide e Sansone di Magdi Allam

Saddam Hussein č un Davide, debole e giusto, costretto a fronteggiare un Bush-Golia forte e ingiusto? Il ministro dell'Informazione iracheno Mohammad Said Al Sahhaf, in un'intervista alla televisione araba Al Jazeera, ha ridicolizzato la potente armata americana sostenendo che nulla potrŕ fare di fronte alla determinazione del combattente iracheno: "La loro superioritŕ aerea e tecnologica non sono nulla nel momento in cui il soldato americano si sentirŕ frustrato davanti al deciso rifiuto del popolo iracheno a questa invasione".

Al Sahhaf ha fatto due esempi di come il Davide iracheno č riuscito a sconfiggere il Golia americano. Primo: a Nassiriya, nel Sud, "un anziano contadino č riuscito ad abbattere con il suo vecchio fucile un elicottero americano Apache". Secondo: a Bagdad le trincee scavate attorno alla cittŕ, riempite di greggio e date alle fiamme, hanno eretto una cortina fumogena sopra la capitale: "Quando il missile Cruise arriva sulla capitale e finisce in mezzo alla cortina fumogena, viene accecato e non colpisce il bersaglio. E' soltanto negli ultimi trenta secondi che il computer a bordo del Cruise inquadra il bersaglio e lo colpisce. Ma se non riesce a visualizzarlo perché c'č una densa cortina fumogena, automaticamente si fa autoesplodere. Loro hanno la tecnologia sofisticata e noi abbiamo i nostri mezzi semplici per annullarne l'efficacia".

Quello che il ministro non dice č che le esalazioni di questa massa di petrolio che brucia a ridosso del centro abitato sta causando serissimi problemi alla salute degli iracheni. In secondo luogo non dice che questi missili esplodono se non inquadrano il bersaglio perché cosě sono stati programmati, e ciň č dovuto alla volontŕ degli americani di non colpire indiscriminatamente la popolazione civile. Purtroppo poi anche i missili e le bombe "intelligenti" sbagliano e i morti civili ci sono comunque.

E' evidente che i civili iracheni sono le vere vittime della guerra. Pagano sia la spregiudicatezza di Saddam sia gli "errori" di calcolo delle armi di Bush. Saddam č un tiranno che ha massacrato il suo popolo anche con l'uso di armi di distruzioni di massa. Bush si presenta come il liberatore del popolo iracheno ma la scelta della guerra finisce per provocare vittime tra i civili. Negli anni Settanta Saddam aveva dato vita a un cosiddetto Fronte patriottico e nazionale progressista, un'alleanza tra il Partito Baas e altre forze tra cui i comunisti e i curdi. In un incontro al vertice tra le formazioni del Fronte, il rappresentante del Baas, Naim Haddad, rivolgendosi al leader del Partito comunista gli disse: "Se c'č qualcuno che pensa di cacciarci dal potere, sappia che gli consegneremo l'Iraq ma senza gli iracheni".

Quella cortina fumogena sui cieli di Bagdad e di Bassora, a dispetto delle conseguenze sulla salute della gente e sull'ambiente, riflette la mentalitŕ di chi non prende minimamente in considerazione le ragioni del suo popolo. L'importante č deviare la traiettoria del missile che č stato programmato per colpire un bersaglio militare o strategico. Piů che Davide, Saddam rassomiglia a Sansone, votato al suicidio-omicidio generale del proprio popolo e delle forze nemiche
 
1996-2004 (e seguenti) di Gabriele Romagnoli

1996: Il professor Harlan Ullman, insieme con il coautore JP Wade, pubblica il libro "Shock and Awe: achieving rapid dominance", che teorizza la strategia militare "COLPISCI E TERRORIZZA". Si sostiene che il metodo ha sempre funzionato. Il primo esempio (XV secolo a.C.) č nel noto libro "L'arte della guerra", del cinese Sun Tzu: siccome due concubine l'avevano deriso le DECAPITO' per ottenere il rispetto delle altre. L'ultimo esempio č Hiroshima. Il professor Ullman insegna al National War College. Ha avuto tra i suoi allievi Colin POWELL, considerato nelle amministrazioni americane una
"colomba" ("Il tuo assassino puň strangolarti con una sciarpa di seta o spaccarti la testa con un'accetta, tu muori comunque", Mourid Barghouti , "I saw Ramallah").
Nello stesso anno un team di otto consulenti prepara per il neoeletto premier conservatore israeliano Netanyahu un documento dal titolo "A new strategy for securing the realm" (www.israeleconomy.org/strat1.htm), che
pone come obiettivo fondamentale il rovesciamento del regime di Saddam in Iraq. Tra gli otto consulenti: Richard PERLE (capogruppo) e Douglas FEITH.

1997-98: primi attentati di Al Qaeda

1999: alla Cnn la tattica "colpisci e terrorizza" viene sostenuta da Donald RUMSFELD. All'epoca conta niente, ma diventerŕ ministro della Difesa

2000: viene eletto alla Casa Bianca BUSH II, convinto che i talebani siano un complesso rock e la politica estera una perdita di tempo

2001: Al Qaeda distrugge le Torri Gemelle. Bush II dichiara GUERRA AL TERRORISMO (durerŕ dieci anni, annuncia). Per farlo si affida a un team nelle cui mani ripone tutte le scelte. Lo compongono: Colin Powell, Richard Perle, Douglas Feith e Donald Rumsfeld. Piů Paul Wolfowitz, che, nella foto di gruppo, č quello con l'accetta e Dick Cheney, che č quello vicino alla
cassa.

2002: l'America libera Kabul dal complesso rock, sfuggono perň il leader della band e quello di Al Qaeda

2003: l'America invade l'Iraq e attua la tattica "colpisci e terrorizza" per "decapitare" il regime di Saddam

2004 e seguenti: leggere per immaginare

lundi, mars 24, 2003

 
La trincea di fuoco che soffoca i bambini. Nell’ospedale Saint Raphaël, tra i bombardamenti di Bagdad di Massimo Nava

BAGDAD - Per ora, č piů difficile nascere che morire nella Bagdad in guerra, chiusa in un cerchio opprimente di fumo, in attesa della battaglia finale. Le bombe cadono anche di giorno, perché cosě sembra piů efficace l’ordine di «colpire e intimorire». E la trincea di fuoco accesa da Saddam confonde il giorno in una notte cosě nera da soffocare anche i primi vagiti. Molte donne incinte hanno perso il loro bambino. Aborti spontanei, effetto del terrore, di corse affannate negli ospedali durante i boati che fanno tremare le mura e il cuore. Ora causa di tagli cesarei prematuri, richiesti dalle stesse madri che non vogliono correre il rischio di avere le doglie in casa, mentre il cielo nero č attraversato dai missili.
L’altra notte, al Saint Raphaël, ospedale privato gestito dalle suore domenicane, una donna ha perso due gemelli. «Persi» altri due bambini, qualche ora prima. «Succede tutte le notti. Si perdono nelle strade per l’ospedale o poco dopo il ricovero, perché sono troppo piccoli per sopravvivere» racconta suor Marianne, la madre superiora, irachena che ha studiato nel convento di Tours, in Francia, e che, dagli anni ’70, dirige questo piccolo ospedale modello, nel quartiere cristiano di Bagdad. Il Saint Raphaël sembra oggi un reperto, rispetto al tempo in cui il sistema sanitario era un esempio per il mondo arabo.
Da sempre, quando un bambino non viene al mondo, si dice che la madre lo ha perduto. Nell’Iraq in guerra si dovrebbe cominciare a considerarlo un caduto. I feti dovrebbero entrare nelle statistiche sui danni collaterali, o aggiungersi alle centinaia di feriti (106, ieri) fra i civili, secondo quanto affermano le autoritŕ irachene. Cifre per altro difficili da controllare. La propaganda di guerra fa dimenticare che a Bagdad venne inventata l’algebra.
Alle mamme irachene, l’intelligenza chirurgica delle bombe interessa poco. Vedono crollare i palazzi di Saddam e forse a molte non dispiace, ma non reggono lo stress dei boati, i vetri infranti, l’urlo assordante delle sirene. «Chi ha in grembo una creatura non fa molta differenza fra la morte sotto le macerie e l’impossibilitŕ di nascere», dice l’ostetrica, musulmana che si č trasferita notte giorno al Saint Raphaël con la sua bambina. «Suona l’allarme, scendiamo in cantina, con mamme, infermieri e neonati. Questo reparto dovrebbe dare gioia, e invece č un inferno».
Sarŕ sempre peggio, giorno dopo giorno. Il regime, in previsione dell’attacco da terra, ha disperso e mimetizzato le sue difese nei quartieri della cittŕ. Il cerchio di petrolio in fiamme scarica veleni nell’aria e nell’acqua. Gli occhi bruciano, si avverte un nodo alla gola, come se Bagdad fosse diventata una grande stanza dove tutti fumano.
Dal secondo piano dell’ospedale, mentre l’ultima nata, due chili, viene messa nell’unica culla termica, si scorgono gli scheletri dei palazzi sul Tigri. «Tutti i bambini piangono quando vengono al mondo - dice un’infermiera - ma i piloti lassů dovrebbero ascoltare questo pianto».
Questi bambini, «liberati» da missili e bombe, avevano il potere di disarmare Saddam? La guerra, raccontata dal nuovo strumento della «diretta», il videotelefono, drammatizza lo spettacolo del campo di battaglia, ma gli sottrae profonditŕ. La sofferenza quotidiana dei civili resta nascosta. Al massimo entrerŕ in una statistica dell’Onu, quando ciň che resta della comunitŕ delle nazioni verrŕ chiamata a ripulire con tonnellate di aiuti la coscienza internazionale e il teatro di guerra. Si calcola che due milioni di bambini iracheni avrebbero bisogno di immediata assistenza.
Le suore del Saint Raphaël mandano avanti anche una scuola elementare, dall’inizio della guerra chiusa come tutte le scuole del Paese. Ci fu un tempo in cui l’istruzione, come la sanitŕ era di buon livello nell’Iraq di Saddam. Prima delle guerre, la scolarizzazione di massa era una realtŕ e migliaia di studenti potevano specializzarsi all’estero. «Oggi i bambini presentano turbe psichiche e difficoltŕ d’apprendimento. Sembrano sempre spaventati, anche quando non cadono le bombe», racconta suor Joséphine.
«Il mondo dovrebbe sapere che l’infanzia irachena č colpita anche da guerre psicologiche, sanitarie, alimentari - dice Marianne, la madre superiora -. In dodici anni di embargo, gli ospedali sono stati privati di tecnologie, medicinali e attrezzature. Per curarsi, la gente deve ricorrere al mercato nero, come se le medicine fossero sigarette».
Toma, chirurgo, in piedi da tre giorni, denuncia altri danni collaterali delle guerre precedenti. «Le tonnellate di uranio impoverito cadute nel ’91 fanno aumentare il numero di bambini anormali, malformati, prematuri. E crescono i casi di tumori fra le madri».
Nei primi quattro giorni di guerra sono stati lanciati mille missili. C’č da augurarsi che la crescita di tumori e malformazioni non sia proporzionale. «Preghiamo. Anche i medici devono credere ai miracoli», dice Toma, dottore con moglie di origini vicentine.
Secondo l’Unicef, 4 mila bambini al mese muoiono a causa delle peggiorate condizioni igienico sanitarie. La mortalitŕ infantile sotto i 5 anni č quasi triplicata rispetto agli anni ’90. In Iraq, il 40 per cento della popolazione ha meno di 14 anni. Intere generazioni hanno conosciuto soltanto Saddam, l’embargo e le bombe. E decine di migliaia di padri sono soldati morti.

Il Corriere
 
Diario pacifista. Nessuno vuol mostrare le immagini degli iracheni uccisi di Giulietto Chiesa

UNA manifestazione per la pace va bene, due manifestazioni per la pace vanno benissimo. Ma solo se in cittŕ diverse, o in giorni diversi. Domenica, a Roma, non č stato cosě. Cioč č andata male. Ma oggi č giŕ un altro giorno. Un giorno terribile, come gli altri. Ma che ci apparirŕ come piů terribile, perché abbiamo visto le immagini dei soldati americani morti e quelli dei piloti americani catturati.

Mentre Al Jazeera ce le mostrava, con insistenza, pensavo - provando orrore - che non avevo ancora visto le immagini di soldati iracheni uccisi. Che stranezza? Non trovate? Invece č spiegabile benissimo. I morti iracheni noi non abbiamo alcun interesse a mostrarli, perché ci farebbero venire sensi di colpa (solo in alcuni, i piů sensibili, altri non hanno dubbi).

Gli iracheni, avrebbero interessi a mostrarli i loro morti, ma ne fanno un uso moderato per non demoralizzare le truppe. Invece i morti americani hanno interesse a mostrarli, perché pensano di demoralizzare le truppe avversarie e di far calare il «rating» di George Bush. E noi quei morti li vediamo, attraverso i nostri media, che sono vittima della coazione a ripetere. E quei morti ci appaiono «piů morti» dei morti nemici. Perché sono nostri, in primo luogo. E, in secondo luogo, perché, in fondo, non pensavamo che ci sarebbero stati. Invece č accaduto.

Penso all’effetto che quelle immagini crude provocheranno negli Stati Uniti. Si credeva che dei morti americani avrebbero potuto esserci, ma li si immaginava colpiti dai gas, dalle armi biologiche. Invece Saddam non ha usato quelle armi. Forse non le ha (non si capisce infatti perché, avendole, non le abbia ancora usate, visto che non ha via d’uscita).

E penso all’effetto che quelle immagini stanno provocando nel mondo arabo. Gli Stati Uniti vinceranno in ogni caso, ma emerge ora, in grande evidenza, che anche loro sono «umani». Cioč fragili. E l’immenso esercito dei perdenti, che č dislocato ben oltre le frontiere dell’Iraq, ne trarrŕ motivo per sperare in mille rivincite.

La Stampa
 
«Cosě l’attacco iniziň 48 ore prima dei piani» di Ennio Carretto

Il bombardamento della residenza di Saddam Hussein a Bagdad, giovedě mattina alle 3.33 italiane, non segnň l’inizio della guerra: all’insaputa di tutti, essa era incominciata alcune ore prima, alle 19 di mercoledě in Italia, con l’ingresso di 300 uomini dei corpi speciali nell’Iraq meridionale e occidentale per colpire le comunicazioni e i depositi di armi batteriologiche e chimiche iracheni. L’attacco alla residenza Dora fece invece anticipare di 24 ore i raid aerei sulla capitale e l’invasione del Paese, previsti originariamente per le 19 di venerdě italiane. Lo svela sul Washington Post Bob Woodward, l’uomo che nel ’74, con Carl Bernstein, fece cadere il presidente Richard Nixon nello scandalo Watergate. Il titolo dell’articolo: «Quando nacque, l’attacco aveva giŕ 48 ore».
Per i critici di Bush, il punto piů importante della ricostruzione č perň un altro: che il presidente ordinň alla Cia, il servizio segreto, di lavorare all’eliminazione di Saddam Hussein giŕ nel febbraio del 2002, e che la Cia mandň suoi corpi paramilitari in Iraq il giugno successivo, infiltrandoli anche a Bagdad. A settembre, prima di andare all’Onu, Bush aveva sulla scrivania «una credibile versione del piano "Oplan 1003 V", la strategia finale da lui poi approvata». Secondo Woodward, contrariamente a quanto si crede, la lunga battaglia diplomatica aiutň Bush: permise al ministro della difesa Donald Rusmfeld e a Tommy Franks, il generale che comanda l’invasione, di affinare i piani e ammassare piů forze nel Golfo Persico.
Nel discorso di lunedě sera, martedě mattina in Italia, in cui diede a Saddam Hussein un ultimatum di 48 ore, Bush non menzionň il piano, ma proclamň che l’America avrebbe attaccato «in un momento di sua scelta».
Il momento erano le 19 di mercoledě, sette ore prima della scadenza dell’ultimatum, quando i corpi speciali entrarono in azione. Subito dopo, il piano fu modificato in corsa per l’attacco a Dora. La rivista Newsweek conferma il retroscena di Woodward. Un alto funzionario di Saddam Hussein, scrive, informň il direttore della Cia George Tenet che il dittatore vi avrebbe passato la notte con i figli. Tenet persuase Bush che l’attacco non avrebbe compromesso la missione segreta dei 300 commando, e avrebbe traumatizzato la leadership irachena. Una volta compiuto il raid aereo, il generale Franks ottenne che l’invasione fosse anticipata di un giorno, da venerdě a giovedě, per impedire al nemico di orientarsi.
Woodward afferma che mai una strategia era stata cosě flessibile. E ne attribuisce il merito a sei mesi di dialogo e confronto tra Rumsfeld e Franks, che partirono da poli opposti per poi convergere sul piano «Oplan 1003 V». Inizialmente, Franks propose un bombardamento di 14 giorni consecutivi, sul modello della prima guerra del Golfo Persico (durň 48 giorni), Rumsfeld un attacco mirato con meno di 100 mila uomini sul modello della guerra afghana. Alla fine, il ministro e il generale optarono per l’incursione dei 300 commandos, tra cui anche inglesi e australiani, nella certezza che sarebbe rimasta nascosta per almeno 48 ore, l’impiego di 250 mila soldati piů gli alleati, e la simultaneitŕ dei bombardamenti e dell’avanzata a terra.

Il Corriere
 
In tv l´angoscia dei prigionieri di Mimmo Cándito

E ora davvero la guerra č con noi. E´ entrata nelle nostre case ieri pomeriggio, agghiacciante, brutale, anche spudorata, come soltanto la guerra sa essere. E la domenica č diventata subito di pietra. La domenica della brava gente, il nostro riposo distratto, la Venier o il Costanzo che dirigevano il flusso rilassato della routine pomeridiana - tutto un mondo d'icone fatue in fuga dalla realtŕ č sparito di botto. Nello schermo che si č fatto all'improvviso vivo, come un pezzo di storia sbattutoci in faccia da un palinsesto impietoso, quella facce «vere» di soldati prigionieri, quei poveri cadaveri ammucchiati sul pavimento nudo, hanno cancellato noia e latitanza. Poi non si sono piů visti, pietŕ o ipocrisia li hanno oscurati; ma dietro la loro ombra hanno lasciato comunque questo amaro in bocca che non se ne va, questo strappo freddo che ancora attanaglia le viscere della nostra quotidianitŕ. La sequenza č partita all'improvviso, con un annuncio generico, d'immagini che avrebbero fatto vedere «alcuni prigionieri americani catturati presso Nassiriya». Le trasmetteva la tv del Qatar «Al Jazeera», una televisione all news che - grazie alla guerra afghana e ai videoclip di Osama - si č conquistata sul campo un'autorevolezza mondiale, facendone la concorrente diretta della mitica (ma oggi acciaccata) Cnn. La prima inquadratura nemmeno si capiva bene che cosa mostrasse, schiacciata com'era su un brandello di uniforme mimetica sparato in primo piano. Ma come la zoomata ha cominciato ad allargarsi, e la telecamera ha preso a muoversi ruotando lentamente verso sinistra, quel brandello di stoffa camouflage č diventato un povero corpo steso per terra, arroccato in un contorcimento innaturale che soltanto la morte riesce a creare. E accanto a quello, un altro corpo, e poi un altro, e ancora un altro. Finora, la guerra della televisione era stata poco meno d'un filmetto di serie B, che si consumava nei collegamenti dei tg con le bombe lontane sull'orizzonte di Baghdad, lo strillo isterico d'un reporter che si trova l'esplosione dentro l'obiettivo, i carri armati in movimento nel deserto dentro nuvole di polvere. Erano sequenze viste giŕ cento volte, una sorta di videogame perfino meno realistico dei giochini elettronici, tanto piů che la precisione delle bombe «intelligenti» toglieva perfino la suspense della morte imprevista. Le nuove tecnologie poi - il videotelefono, soprattutto - le tanto sbandierate nuove tecnologie aggiungevano poco a questa banale rappresentazione «cinematografica». Il set era giŕ stato digerito abbondantemente dalla bulimia della macchina televisiva, la marmellata di realtŕ e di finzione che č la tv impiastrava un «messaggio» che non pareva offrire l'appeal che il nostro immaginario proietta sul racconto d'una guerra. Ma un cadavere - un corpo vero, di quello ch'č stato un uomo e ora č soltanto un ammasso contorto di carne - s'impone anche quando l'inquadratura č stupida, o sbagliata, o apparentemente insignificante. E la tv si fa allora davvero realtŕ, e la guerra irrompe allora davvero dentro casa e dentro lo stomaco. Si frantuma un tabů, si spalancano le porte del proibito. Intanto un uomo entra nell'inquadratura dei corpi ammucchiati, lo si vede di spalle, ha un camice azzurro e guanti di lattice, come un medico o un infermiere. Si volta verso la telecamera e sorride. Sorride mentre si abbassa a prendere per i capelli la testa d'uno di quei cadaveri e la ruota verso l'obiettivo, per favorire la zoomata sulla faccia senza piů vita. I corpi sono ammucchiati come fagotti abbandonati, una pancia č aperta di sangue. La telecamera fruga impietosa, insistente. Le mosche non si sentono disturbate, continuano il loro pasto sulle pance aperte, sugli occhi sbarrati. Un cadavere ha un foro aperto in mezzo alla fronte, un altro ha un occhio strappato via da un colpo. C'č poco sangue, quasi nulla; questi cadaveri sono morti lontano da quella stanza che la telecamera fa diventare un obitorio. Sulle povere pance, la mano di quello che sorride alla morte allarga i documenti trovati nelle tasche, fogli che sembrano lettere, una fotografia, uno stampato ufficiale, una tessera telefonica, un portafoglio nero, anche una carta di credito. Sono storie di soldati senza nome, storie uguali in tutte le guerre e in tutti i tempi. La tv li aveva risparmiati, finora; opportunismi, pudore, qualche vaghezza di memoria etica, li teneva lontani dall'insistenza marchettara della tv. E perň ora, senza uno stacco, ecco che lo schermo ti sbatte addosso la faccia d'un ragazzo biondo, con gli occhialini rotondi da studente; ha i capelli a spazzola, la canottiera verdepallido dei soldati, e guarda dentro l'obiettivo con occhi che hanno paura. Parla una voce in arabo,«Ishmek?». Il ragazzo scuote la testa. «I don't understand. Non capisco». Una voce fuori campo traduce: «Da dove vieni?». «Dal Kansas». Perché sei venuto in Iraq? «Sono venuto perché me lo hanno ordinato». Sei venuto per uccidere gli iracheni? «No, io sono della logistica. Non li molesto se non mi molestano. Se mi sparano, rispondo al fuoco». Come ti chiami? «Pierce Miller, soldato di prima classe». E deglutisce un groppo che gli chiude la gola. Stacco, Secondo prigioniero, pelle scura, capelli cortissimi, si chiama Joseph Button, matricola 556502. E' meno nervoso, finge anche di capire poco. Come ti hanno accolto in Iraq, con la musica o con il kalashnikov? «Mah, non capisco». Ma la gente qui, era con armi? «Sě, armati». Stacco. La faccia che ora riempie lo schermo č tutta occhi. Gli occhi frugano a destra e sinistra, sempre in moto, nervosi, autenticamente impauriti. L'uomo č seduto sul bordo d'una brandina, tiene le mani in grembo, la canottiera č sudata. Ishmek? «Sergente James Riley, settima compagnia». Gli occhi si muovono febbrili. Di quale cittŕ sei? «New Jersey». Ancora quegli occhi impazziti. Quanti anni hai? «31». Deglutisce, si stringe nelle spalle, poi abbassa la testa e guarda verso terra. La telecamera inquadra le sue scarpe da deserto. Stacco. Una donna. Ha la faccia grande, con grandi occhi, i capelli tirati sulla nuca. La telecamera l'inquadra dall'alto, seduta su una poltroncina. Non č affatto tranquilla, anche i suoi occhi si muovono con tensione evidente. Ishmek? «Shana». Quanti anni hai? «30». Qual č la tua unitŕ? «La 507ma». Il documento č tutto qui. Non ci sono le labbra gonfie, spaccate dai pugni, dei prigionieri della Seconda Guerra del Golfo, quella di Schwarzkopf e di Cocciolone e di Bellini. Siamo a mezzo tra l'intervista e l'interrogatorio. Ma la sua evidenza di realtŕ - rispetto alla «realtŕ costruita» che la televisione produce nel suo palinsesto quotidiano - č choccante: c'č sangue vero, carne spaccata, puzzo di sudore e di vita. C'č la morte. In Somalia, nel '91, Bush-papŕ aveva lanciato l'operazione «Restore Hope» per vincere la fame in Africa e affermare, laggiů, nel continente dei poveri, la nascita del Nuovo Ordine Internazionale. L'America era con lui, il mondo seguiva affascinato la strategia planetaria del trionfatore del «Desert Storm», del Presidente che aveva liberato il Kuwait e aperto una nuova pagina nella storia del mondo. Poi (ed č il film «Black Hawk Down») la televisione portň nelle case dell'America il cadavere di un povero elicotterista americano trascinato con un legaccio di fil di ferro per le strade di Mogadiscio e i miliziani di Aidid che gli ballavano sulla pancia. L'orrore travolse l'orgoglio della guerra contro la fame e la superbia del Nuovo Ordine Internazionale. Via, subito a casa, tutti a casa. E «Restore Hope» fině con una ingloriosa ritirata. La guerra all'Iraq arriva in un contesto diverso, l'America si sente minacciata direttamente. Nessuno pensa a una ritirata, ci mancherebbe pure. Ma quei poveri corpi ammucchiati in uno stanzone freddo, quella facce impaurite di prigionieri senza futuro, aprono ferite amare nella storia quotidiana dell'America. In «Desert Storm» furono fatte due prigioniere: si chiamavano Melissa Rathbun-Nealy, catturata nel deserto, e Rhonda Cornum, abbattuta con il suo elicottero. Quando furono liberate, alla fine della guerra, raccontarono ch'erano state trattate con cortesia, che gli iracheni offrivano loro fiori e dolci. Poi Rhonda ruppe l'obbedienza ai «consigli» del Pentagono. «Mi hanno violata dappertutto», disse amara. E Melissa volle ripetere: «Mi hanno stuprata tutti, mi hanno umiliata in ogni modo». La guerra non sono le immagini delle bombe da lontano, č morte, violenza, miseria, distruzione della nostra comune umanitŕ. Non ci facciamo ingannare.

da La Stampa

 
Uno sfondo pacifico per il desktop del vostro computer
by Andrea Valente
 
Iraq: Un giornalista ucciso, due feriti e altri tre dispersi
 
Nei giorni segnati dalla guerra all'Iraq, dalla violenza delle bombe e dei missili, dalla paura che segue inevitabilmente il fallimento della diplomazia internazionale, e il crepitio degli scoppi, cade la "Giornata internazionale per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale".

E' stata (dimenticata) il 21 marzo...

dimanche, mars 23, 2003

 
Mandate una cartolina Feltrinelli contro la guerra

I testi:

Gino Strada, Buskashě
Non credere una parola, ogni volta che cercheranno di spiegare come sarŕ bella la guerra futura, tecnologica, selettiva "umanitaria". Sarŕ solo un altro carico di morte e di miserie umane.

Mohandas Karamchand Gandhi, Per la pace
La libertŕ e la democrazia diventano empie quando le mani si arrossano di sangue innocente.

Lella Costa, In tournée
Durerŕ pochi giorni, commentavamo mentre tornavamo a casa... Poi tutto tornerŕ come prima. Ed č esattamente cosě che fa la guerra. Si insinua, si mischia alla vita normale, quotidiana delle persone, delle cittŕ.

Jaroslav Hašek, Il buon soldato Sc'včik
Dopo la guerra, qui, ci saranno ottimi raccolti. Non avranno bisogno di comperarsi la farina di ossa, per i contadini č molto vantaggioso quando nei loro campi vanno in putrefazione reggimenti interi; in sostanza č tutta roba che serve per arricchire il terreno.

Edoardo Sanguineti, Il gatto lupesco - Poesie
principe giusto, grido forte, allora,
guerra non fare, non fare battaglia,
non la bomba A, non la N, non l'H,
che va cosě, come la spacca spacca:


Gino Strada, Pappagalli verdi
La rabbia lasciava il posto alla tristezza, quella che riempie la mente quando non c'č piů la possibilitŕ di capire, quando č svanita la ragione ed č solo follia.

Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua
Questa nuova guerra sta creando una spirale di violenza e diffondendo il virus dell'odio.
 
Un anticipo dello spettacolo di Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo

John Le Carre', famoso umorista satirico, ci ha dato un ottimo spunto di dialogo sarcastico fra un bambino e suo padre. Noi abbiamo preso in prestito le prime due battute iniziali per svilupparlo.

BAMBINA: (rivolta al padre) Papa', tutti a scuola ogni giorno, a cominciare dalla maestra, parliamo della guerra, e' una guerra umanitaria, e' vero, papa'?
PADRE: Si', gli americani contro gli arabi.
BAMBINA: Noi siamo con gli americani, vero?
PADRE: Si', e' naturale, siamo coi piu' forti.
BAMBINA: Molto forti, papa'?
PADRE: Si', strapotenti!
BAMBINA: Allora vinceremo, papa'!
PADRE: Ah, non c'e' dubbio.
BAMBINA: Sono contenta che vincano i buoni, perche' noi e gli americani siamo i buoni, vero papa'?
PADRE: Certo, i buoni contro i cattivi!
BAMBINA: Che sono gli arabi, vero papa'?
PADRE: Si'... no, non tutti gli arabi sono cattivi... quelli del Kuwait e dell'Arabia Saudita, per esempio sono buoni.
BAMBINA: La maestra dice che i buoni americani stanno lanciando un sacco di bombe, una al minuto, sugli arabi cattivi... e' vero papa'?
PADRE: Si', esattamente 3000 bombe in 48 ore.
BAMBINA: Mamma mia... e bim-bom-bom... chissa' che rumore! Allora ci saranno molti morti...
PADRE: Credo che si', e' inevitabile.
BAMBINA: Anche bambini?
PADRE: Si', ma sono stranieri, altra gente. Noi non li conosciamo.
BAMBINA: Non li conosco neanch'io! Beh, meno male. Sono contenta di non conoscerli. Sono bambini cattivi papa'?
PADRE: No, ma che c'entra... i bambini non hanno nessuna colpa... poverini, sono innocenti.
BAMBINA: Innocenti come quelli della strage di Erode?
PADRE: Ma cosa c'entra? Erode era cattivo e non amava i bambini, anzi li odiava.
BAMBINA: Allora anche gli americani...
PADRE: Ma no, non far confusione! E' per via che 'sti bambini arabi per caso si trovano li'...
BAMBINA: In un posto dove non dovrebbero essere...
PADRE: Si', fuori posto... nel posto sbagliato, proprio dove cadono le bombe... e' un incidente involontario... vittime collaterali.
BAMBINA: E allora perche' gli americani non gridano con l'altoparlante "Bambiniiii collaterali spostatevi tutti di la'! Tutti i bambini vadano nei prati... lontano dalle case e dai palazzi... che noi dobbiamo buttare bombe sulla citta'!"
PADRE: Ma figurati... gli americani mica possono avvertire dove vanno a buttare le bombe, senno' tutti scappano dalla citta' e allora il loro programma dove va a finire?
BAMBINA: Che programma, papa'?
PADRE: Quello che chiamano "colpisci e terrorizza" . Chi terrorizzano se scappano tutti!
BAMBINA: Oh, che stupida che sono! E poi se dicono ai bambini "Fuori, andate nei prati!" ci vanno anche le mamme e i papa' travestiti da bambini.
PADRE: Ecco, si', mettiamola cosi'. Adesso pero' mettiti tranquillo e mangia, che si raffredda tutto.
BAMBINA: Si', si'... mangio... pero' intanto spiegami papa'... non e' mica contro tutti gli arabi che l'America fa la guerra?
PADRE: Ma scherziamo, di certo che no. I musulmani sono piu' di un miliardo... staremmo freschi!! La guerra si fa solo contro gli iracheni che sono sei milioni in un territorio piu' grande del nostro.
BAMBINA: Ah, ecco... allora sono solo loro i cattivi.
PADRE: Beh, per adesso...
BAMBINA: Come per adesso?
PADRE: Beh, diciamo che adesso, in 'sto momento gli iracheni sono i cattivi piu' pericolosi.
BAMBINA: Ah, eh gia'... allora diciamo che gli altri sono piuttosto buoni, buonini, buonaccioni... sono poveri ma buonissimi.
PADRE: No, non sono tutti poveri, ce ne sono anche di molto ricchi...
BAMBINA: Ma come mai... se hanno solo della gran sabbia e cammelli?
PADRE: E no, hanno anche il petrolio... hanno i giacimenti di petrolio piu' ricchi del mondo!
BAMBINA: Ah, ho capito, quelli che hanno tanto petrolio sono i piu' buoni, e quelli senza, sono i cattivi.
PADRE: Beh, non esageriamo...
BAMBINA: Si', non esageriamo. Adesso che mi viene in mente... la maestra dice che i capi americani sono tutti petrolieri...
PADRE: Beh, in un certo modo e' vero.
BAMBINA: E ai petrolieri ci piace il petrolio. E com'e' che tutti quelli che hanno il petrolio vanno d'accordo fra di loro e si vogliono bene?
PADRE: No, non e' cosi' semplice... tanto per cominciare, per esempio, questo capo degli arabi iracheno, che si chiama Saddam, ha tanto petrolio eppure e' cattivo.
BAMBINA: Ma va? Un petroliere cattivo?! Com'e' possibile! Pero' se questo arabo cattivo da' tutto il suo petrolio agli americani... allora diventa buono!
PADRE: No, non e' cosi' semplice...
BAMBINA: Non e' semplice, non e' cosi' semplice... pero' e' cosi'!! Di' di no!?
PADRE: Ma che ne sai tu, una bambina, di certe cose da grandi.
BAMBINA: La mia maestra ha detto che si', gli americani vogliono il petrolio dell'arabo cattivo, perche' a loro gli piace e vogliono il petrolio anche degli altri...
PADRE: Quali altri?
BAMBINA: Aspetta che ce l'ho qui scritto sul mio diario... eccoli qua: quello del Sudan, quello della Libia, quello dei Siriani... Emirati del Golfo, i Colombiani...
PADRE: Basta cosi'! Quella tua maestra e' una chiacchierona sovversiva... domani vado dal preside, la faccio cacciare e a te ti cambio di scuola!
BAMBINA: E allora se tu vai dal preside a fare 'sta porcata, io non vado piu' a scuola... (scoppia a piangere) in nessun'altra scuola!
PADRE: Cosa? Come ti permetti di rispondere cosi' a tuo padre? Vieni qua che ti do uno schiaffo!
BAMBINA: (sempre piangendo) Va bene, fai pure, dammi tutti gli schiaffi che vuoi... e io telefono al Telefono Azzurro e dico che sei cattivo e che oltre a picchiarmi vuoi cacciar via la mia maestra che ci insegna cosi' bene... e ci insegna facendoci giocare... (continua a piangere).
PADRE: Su, non piangere... Sentiamo... che gioco giocate per imparare?
BAMBINA: La battaglia cielo-terra, che noi chiamiamo anche portaerei e missili.
PADRE: Ah, una specie di battaglia navale...
BAMBINA: Si', con delle regole uguali a quelle di Risiko e Monopoli con tanto di dadi e carte da pescare.
PADRE: Che carte?
BAMBINA: Quelle normali: c'e' il re di picche che e' la Russia, poi il re di fiori la Francia, la regina di cuori l'Inghilterra, l'asse pigliatutto l'America.
PADRE: Ah, simpatico.
BAMBINA: Si', molto... ci divertiamo un sacco.
PADRE: E il presidente degli italiani... che carta e'?
BAMBINA: Il due di picche... cerca di leccare i piedi a tutti i re ma nessuno lo caga!
PADRE: Ehi, dico... e' questo il modo di esprimersi?
BAMBINA: Non lo dico io, e' il titolo del gioco "Mettiti col piu' forte senno' nessuno ti caga".
PADRE: Basta! Basta. Mangia e taci!
BAMBINA: Si' mangio... ma a lui non lo caga nessuno lo stesso!

Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo
 
Da Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo:

Care amiche, cari amici,
giovedi’ 27 marzo, alle ore 20,30 (non alle 21 come annunciato inizialmente) andra’ in onda lo spettacolo di Dario Fo e Franca Rame: Ubu-Bas Va alla guerra.
Questo spettacolo verra’ trasmesso da un gruppo di 19 (per ora) televisioni locali, verra’ inoltre trasmesso via satellite e anche via internet. In questo momento sentiamo la necessita’ di tentare di raggiungere un pubblico il piu’ vasto possibile per raccontare alcuni fatti che le televisioni censurano sulla guerra in Iraq e Afghanistan, sul petrolio e sugli interessi che stanno dietro a questi conflitti.
Abbiamo quindi deciso di tentare di affiancare le iniziative televisive che il movimento sta sviluppando con le televisioni di strada, Global Tv e No War Tv, con un esperimento di tipo teatrale. Se ci riusciremo sara’ un risultato positivo dal punto di vista dell’informazione ma anche un esperimento nel processo di creazione di una
Tv indipendente. Noi non abbiamo intenzione di fondare una tv, non abbiamo ne’ i mezzi ne’ le capacita’ ma crediamo utile sapere che tipo di risposta potrebbe incontrare uno spettacolo teatrale diverso.
Chiediamo quindi a tutti di aiutarci a diffondere la notizia.

La trasmissione sara’ visibile sui seguenti canali locali e su internet (solo per chi ha una connessione adsl) all’indirizzo www.francarame.it dove troverete anche la lista, via via aggiornata, delle televisioni che
accetteranno di trasmettere lo spettacolo e (a partire da lunedi’) le indicazioni per vedere la trasmissione via satellite. Inoltre lunedi’ 24, a Milano, al teatro Ventaglio Nazionale, alle ore 20,45 si terra’ lo spettacolo ”Ubu Bas va alla guerra”. La registrazione di questa serata servira’ come base della trasmissione di giovedi’ 27. Sul sito troverete anche un banner che linka alla pagina dove ci sono tutte le informazioni, per chi volesse pubblicarlo sul proprio sito.

Piemonte Valle D’Aosta: Rete 7
Liguria: Tele Citta’
Lombardia: Tele Lombardia
Friuli: Tele Friuli
Venetono: Rtl-Rete Azzurra (circuito Europa 7)
Emilia Romagna: E’ Tv
Marche: Tv Centro Marche (circuito Europa 7)
Umbria: Umbria Tv
Toscana: Teleregione (circuito Europa 7)
Lazio: Tvr Voxon (circuito Europa 7)
Abruzzo e Molise: Tvq (circuito Europa 7)
Campania: Canale 8 (circuito Europa 7)
Calabria: Rtc (circuito Europa 7)
Puglia: Tele 2
Sicilia: Tele Etna - Tele Scirocco (circuito Europa 7)
Sardegna: Tcs- Tele Nova
 
Un link segnalato da Gabriele Romagnoli.
 
Ernest Hemingway, testimone e cronista di due guerre ...

Ernest Hemingway, testimone e cronista di due guerre europee, riferě cosě (cito a memoria) il commento di un ufficiale americano addetto al servizio stampa delle forze armate: «Se fosse per me, non direi ai giornalisti neppure che la guerra č scoppiata. A guerra finita, racconterei quello che č successo». Il desiderio di quell’ufficiale si č parzialmente avverato. Sappiamo che vi č una guerra e crediamo di vederne gli effetti (il fumo e i lampi nel cielo di Bagdad, i carri nel deserto, la fila indiana dei prigionieri iracheni), ma non possiamo verificare le notizie. Nell’era della comunicazione globale, dell’email e dei satellitari, la guerra č avvolta da un’impenetrabile nuvola di reticenza, imprecisioni e informazioni manovrate. Questa «nuvola» ha una storia che comincia in Vietnam negli anni ’60. Quella guerra fu il primo conflitto televisivo nella storia del mondo. I giornalisti di carta stampata, microfono e telecamera godettero, con qualche eccezione, di una straordinaria libertŕ. Erano negli accampamenti dove i soldati americani ammazzavano con la droga il tempo e la paura. Erano nella giungla, dove i soldati rischiavano continuamente la morte. Erano nei villaggi, dove la rabbia esplodeva talvolta, come a My Lai, in brutali rappresaglie. Erano negli aeroporti, da dove partivano i body bags , i sacchi dei cadaveri, per l’ultimo viaggio di ritorno.
Gettata nelle case americane e nei campus universitari, questa massa di informazioni creň un fronte interno, forse piů insidioso della giungla vietnamita. Anche se molti europei non colsero la gravitŕ del fenomeno, l’America di Johnson e Nixon fu scossa da un’ondata di rabbia popolare e di disobbedienza civile che sfiorň per alcuni mesi la soglia delle crisi rivoluzionarie.
Fu quello il momento in cui i responsabili politici e militari delle forze armate americane giurarono a se stessi che mai piů avrebbero combattuto a quel modo. Per evitarlo occorrevano due condizioni: in primo luogo armi moderne, tecnologicamente rivoluzionarie, che permettessero ai soldati di colpire senza morire; in secondo luogo il controllo totale dell’informazione. Di questa strategia abbiamo fatto una prima esperienza durante Desert Storm , nel ’91, quando i giornalisti ricevettero spesso, per tutta informazione, dei video di cui nessuno poteva dire con esattezza quando e dove fossero stati realizzati. E ne abbiamo avuto la conferma durante la missione in Kosovo e la guerra afghana, dove l’uso delle forze irregolari della Cia e l’intreccio dei rapporti con i baroni della guerra sono emersi gradualmente dopo il crollo del regime talebano.
Oggi la politica della reticenza si č arricchita di una variante. Insieme al silenzio sul reale risultato delle operazioni militari, registriamo un fenomeno apparentemente contrario: una straordinaria quantitŕ di immagini che danno a chi le vede la sensazione di conoscere tutto in presa diretta, insieme a una quantitŕ di notizie non verificabili, diffuse con i piů svariati mezzi dell’informazione globale. I primi ad accorgersene sono i giornalisti (alcuni dei quali, quattro soltanto nella giornata di ieri, per vedere da vicino la realtŕ, hanno giŕ perso la vita o sono dispersi). L’altra sera un conduttore della Cnn ha chiesto a una collega accreditata presso il Dipartimento di Stato: «Siamo davvero sicuri che i corrispondenti, diffondendo queste notizie, non facciano il gioco di qualcuno?». La giornalista ha risposto sorridendo: «Non sarebbe la prima volta». Un grande reporter americano scrisse un giorno: «I giornalisti non fabbricano le notizie, le consegnano come il lattaio consegna il latte al mattino». Ma quello, almeno, era latte buono. Come lo č quello di chi racconta ciň che vede, senza nessuna lente.

da Il Corriere

"Su cio' di cui non si puo' parlare, non si deve tacere... ma si deve scrivere"

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