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etcetera

     

dimanche, avril 20, 2003

 
Da Emergency

Cari amici,
questa č una comunicazione un po' diversa dalle solite. Ultimamente
siete abituati a ricevere notizie aggiornate di ciň che facciamo e
considerazioni su ciň che vediamo. Quando ci rispondete con lettere o
mail di stima e di affetto le viviamo come conferma del fatto che
stiamo lavorando bene e ci ricarichiamo, mettendo da parte fatica e
ansie. Oggi, perň, mi decido a coinvolgervi anche su un altro piano.
Questa mattina Gino, da Bagdad, ci ha chiesto: "Quanto possiamo
investire in ulteriori aiuti a Bagdad e nel Sud dell'Iraq? E che cifra
abbiamo a disposizione per l'emergenza che si č creata nei nostri
ospedali nel Nord?". Gli ho risposto "Non ti preoccupare, hai altro da
fare, a questo pensiamo noi". Appunto, "noi". Posso chiedervi di darci
una mano a mantenere questi progetti?

Una sola volta abbiamo mandato ai nostri sostenitori una lettera
esplicita in questo senso (allora non avevamo internet). Era l'autunno
1995 e noi dovevamo mettere il tetto all'ospedale di Sulaimaniya prima
che arrivasse le neve, ma eravamo, come si dice a Milano "in braghe di
tela". Abbiamo chiesto ai nostri medici ed infermieri di portare
pazienza ("potete aspettare che lo stipendio vi arrivi tra 2 o 3
mesi?") e abbiamo mandato una lettera ai nostri sostenitori, che
allora erano pochi. Risultato: abbiamo messo il tetto all'ospedale di
Sulaimaniya e, dopo un po', rimesso in condizioni il nostro personale
di pagare il mutuo ecc. (Una seconda e ultima volta abbiamo provato un
circoscritto mailing per cominciare la costruzione dell'ospedale in
Sierra Leone. Risultato buono, dicono gli esperti in materia, ma ci
sembrava un modo freddo, diverso dal rapporto diretto che abbiamo di
solito con chi giŕ ci conosce, per cui non abbiamo ripetuto
l'esperienza. E risparmiato sui francobolli. Avrete notato, ad
esempio, che a Natale nella cassetta della posta non trovate mai la
lettera di richiesta fondi di Emergency.)

L'ampliamento dei progetti in questi giorni ci sta dando
preoccupazioni di carattere economico. Tra l'altro, ci č stato
segnalato l'equivoco di persone che credono di finanziare Emergency
attraverso versamenti su un conto corrente molto pubblicizzato nelle
ultime settimane, quello relativo all'iniziativa "Tavolo di
solidarietŕ con le popolazioni dell'Iraq" che raccoglie 30
organizzazioni ed č largamente sostenuto dalla stampa oltre che da un
partito. Emergency non fa parte di questo "tavolo" e i finanziamenti
destinati ai nostri progetti sono raccolti attraverso i nostri soliti
conti correnti.

Mi rendo conto, ora, di aver chiacchierato con voi piů a lungo di
quanto intendessi, ma la spiegazione sta nel rapporto diretto
(appunto) con voi e, forse, nell'imbarazzo per una richiesta che non
mi č abituale. Se direte "non posso aiutarvi, ma sono con voi,
continuate cosě", saremo comunque felici. Come si dice, "non di solo
pane vive l'uomo". Buona Pasqua e buona primavera.

Teresa Sarti Strada

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I nostri nuovi uffici sono in Via Orefici 2 - 20123 Milano
Il nuovo numero di telefono per informazioni č 02 881881

per donazioni:
- c/c postale 28426203
- c/c bancario n. 713558 CAB 01600 ABI 5387 Banca Popolare dell'Emilia Romagna agenzia
di Milano
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- carta di credito on line dal sito www.emergency.it

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Medici di guerra inviati di pace: il sito

Tutte le notizie e le fotografie che riguardano le nostre missioni
sono pubblicate nella sezione "medici di guerra inviati di pace",
raggiungibile cliccando sull'icona in home page oppure a questo
indirizzo L'aggiornamento č molto frequente, spesso quotidiano, quindi
vi invitiamo a visitarci spesso.

mardi, avril 15, 2003

 
Da Il Manifesto, 11 aprile 2003

La mia vittoria STEFANO BENNI

Sono George Wermacht Bush, presidente della piů grande ex-democrazia del mondo. Prima di partire per il week-end nel mio chalet, dove mi distrarrň pescando le trote col mitra, vorrei tenere una breve e vittoriosa conferenza stampa. Saluto i giornalisti presenti: riportate fedelmente le mie parole e non spaventatevi se vi parlo dalla torretta di un carro armato. Mi piace stare quassů: niente come le armi eccita chi ha schivato il militare, come ha fatto il sottoscritto, e quasi tutti i senatori Usa. Il primo passo verso la liberazione dell'Iraq, del Medio Oriente, e del mondo č compiuto, ma il campionato č lungo e molto resta da fare. Abbiamo abbattuto la statua del rais, simbolo di una tirannia obsoleta. Quando hai i B 52, non hai bisogno di una grande statua perché la gente ti guardi dal basso. In Iraq lo scontro č stato preventivo ma duro. Sapevamo di avere di fronte un avversario preponderante, con un'aviazione micidiale, missili di ottima annata, armi chimiche e di sterminio totale. Ed ecco la prima subdola mossa del nemico. Esso ha nascosto il suo terrificante potenziale militare causandoci non poche difficoltŕ.
Le centinaia di caccia iracheni non sono decollati, mettendo in crisi la nostra aviazione che li cercava giorno e notte. I missili che molto astutamente avevamo fatto distruggere dagli ispettori Onu non sono partiti. I tank avevano la targa babilonese. Le armi chimiche non c'erano, abbiamo trovato solo atropina, calzini vecchi e magnesia. Adesso ci toccherŕ di trasportare un po' di schifezze sul posto. La Bayer ci manderŕ medicine tossiche come il lipobay, McDonald's il suo famoso Blob Burger. Berlusconi ci ha promesso la discarica di suo fratello. Soldati in mutande si sono arresi ai nostri tank che li hanno spalmati sulla sabbia del deserto. Non siamo venuti qui per caricare autostoppisti. Il grande esercito iracheno ha astutamente finto di essere male armato, affamato, antiquato.

A questo punto, come potevamo combattere una guerra senza nemico? Avremmo dovuto dare ragioni ai nostri detrattori, quelli che dicevano che Saddam poteva essere disarmato in pochi mesi dall'Onu. Non ho niente contro l'Onu, anche se preferisco il Rotary. Credo anzi che il lavoro degli ispettori sia stato molto utile: gli abbiamo fregato le mappe delle caserme e dei depositi, e abbiamo sparato sul sicuro.

Ma questa guerra aveva bisogno di un po' di suspence, e per fortuna c'era Saddam. Lui č servito a dare dignitŕ di operazione militare a questo tiro al bersaglio. Bisognava eliminare il rais, e poiché si spostava come una talpa, dovevamo cacciarlo. Nel corso di questa caccia abbiamo colpito: Tre mercati, due ospedali e una televisione. Un albergo, una scuola e due quartieri residenziali. Un tot di civili e soldati iracheni. Cento soldati inglesi a piedi e in elicottero. Cinquanta soldati americani. Un imprecisato numero di curdi, tanto quelli non li conta mai nessuno. Un gruppo di giordani. Undici afghani. Un cameraman ukraino e uno spagnolo. Un camion di mamme e bambini. Cinque addetti d'ambasciata russi (l'ambasciatore ci č scappato... pardon si č salvato). Una suora in motorino. Un'ambulanza della Croce Rossa. Diversi villaggi sospetti di essere siti chimici. Cosě imparano a cucinare i peperoni. Abbiamo ucciso Alě il chimico, Fatima la tossica, Mohamed il velenoso e Selim il boleto. Siamo rimasti vivi solo noi: George l'ubriacone, Rumsfeld il cocainomane, Osama il dialitico e Saddam il clonato. Per ultimo, abbiamo tentato di colpire Lilli Gruber, scambiata per il rais. E' vero, non gli somiglia molto, ma era a trecento metri e aveva un microfono in mano.

Naturalmente ora che č caduta Baghdad ci toccherŕ di accoppare anche Saddam, anche se la Cia preferirebbe prenderlo vivo e surgelarlo insieme a Toro Seduto e a Khomeini, magari torna buono tra qualche anno. Poi ci prenderemo il petrolio, e gestiremo le faide e le vendette di questo paese. Correrŕ altro sangue, ma pazienza. Siamo indifferenti sia alla gioia di alcuni iracheni per la fine della tirannia, sia alla resistenza disperata di altri: i primi li fotografiamo, i secondi li massacriamo. Quello che ci rode č che, a onta dei molti megafoni della nostra propaganda, sappiamo bene che alla fine non riusciremo a passare per liberatori. Ahimč, questa volta siamo stati smascherati.

Ebbene sě, cari sudditi americani e alleati: siamo la razza eletta e l'esercito piů potente del mondo, ma abbiamo alcuni difetti. Combattiamo sempre cinquanta contro uno, inventiamo i motivi delle guerre, torturiamo i prigionieri, spariamo sui civili, e diciamo un sacco di bugie. Ma nell'inventare e riciclare Nemici Terribili e Potentissimi siamo i migliori. E li scegliamo sempre capi di un popolo impoverito e sofferente.

A questo punto sarebbe un peccato sprecare questa nostra abilitŕ. Questa invasione non ci basta, questo petrolio č poco, le fabbriche di armi non possono fermare la produzione, Rumsfeld ha comprato gli anfibi nuovi, abbiamo bisogno di un nuovo nemico, subito. Il mondo pagherŕ l'offesa di averci isolato, i pacifisti di averci sputtanato, il papa di averci sgridato. Siamo un popolo pacifico, ma nei prossimi anni triplicheremo la spese militari. Siamo un popolo democratico, ma la Cia ha ripreso a schedare insegnanti, giornalisti e intellettuali. Siamo un popolo multietnico ma in mano a un elěte di straricchi bianchi.

Avete visto le prime nostre reazioni alla caduta di Baghdad? Cheney ha detto, vaffanculo l'Onu, l'Iraq lo ricostruiamo noi. Rumsfeld ha detto, non cesseremo il fuoco finché l'ultimo uomo di Saddam non sarŕ morto. Powell si č lamentato perché Osama non si fa vivo. Bolton ha detto: l'Iraq serva di monito a Siria Iran e Corea del Nord. Vi sembrano frasi che segnano l'inizio di un periodo di pace? Io non mi aggiungerň a queste voci minacciose, a me interessa solo essere rieletto e che la Esso mi dia il sette per cento sui barili. Perň vi faccio notare che in Cina sono spuntati questi scarafaggi portatori di polmonite. Ieri, alla Casa bianca, ne č stato visto uno rubare un chicco di riso. Non siamo paranoici, ma se i musi gialli vogliono iniziare la guerra blatto-batteriologica, abbiamo abbastanza armi nucleari da disinfestare tutto il loro obeso paese. Siamo un paese pacifico, ma l'igiene prima di tutto.

L'operazione guerra infinita č iniziata. Nessuno si stupisca. Vi interrogate, giustamente, sul perché in tanti odiano l'America. Cominciate anche a chiedervi perché tanti americani odiano il resto del mondo.

Perciň cari giornalisti e operatori, quando tornerete al vostro giornale o alla vostra televisione, se li troverete ancora, diffondete al vostro pubblico questa notizia: da oggi nessuno č al sicuro. Parafrasando un fottuto scrittore americano filocubano comunista: non ti chiedere mai per chi suona la sirena. Essa suona per te. Arrivederci e andate con Dio. Il mio, non quello del papa.
 
DA E SU EMERGENCY

Mario ci scrive che la guerra e' finita...

Sulaimaniya, mercoledě 9 aprile 2003


La notizia arriva in maniera insolita....mentre in terapia intensiva
armeggiamo con due drenaggi toracici, una infermiera entra in lacrime e
si siede alla scrivania con la testa tra le mani.
Non capisco, e continuo a non capire quando vedo che gli altri
infermieri scoppiano a ridere e si danno pacche sulle spalle. Continuo a
districarmi tra i drenaggi e penso che non sono carini con la collega, io non
me la sento di chiedere come mai piange ma spero che qualcuno mi
riferisca il perche'.
Basta attendere pochi secondi: "Kaka Mario, Bagdad BUM!" Come BUM? Sta
a vedere che c'e' stata qualche esplosione grossa...inizio a
preoccuparmi, ho avuto modo di conoscere molti dei giornalisti che ora sono in
cittŕ e le notizie da un po' di giorni non sono molto felici per loro.
In televisione, tra la gente che soccorreva i giornalisti vittime di
"fuoco amico", ho riconosciuto qualcuno con cui abbiamo cenato insieme
durante la nostra permanenza a Bagdad lo scorso mese.
Come BUM?, chiedo ancora, mentre sto decidendo di cambiare il
bottiglione del drenaggio troppo pieno di sangue...: "Kaka Mario, Bagdad finish,
war finish". Un po' lento ma inizio a capire.....
L'infermiera ora ride, si asciuga le lacrime e si abbraccia con gli
altri colleghi. Dispongo la sostituzione del bottiglione ed esco dalla
terapia intensiva.

Ore 15.00

Oggi e' anche giorno di visita. Fuori l'ospedale si sentono macchine
che strombazzano all'impazzata e le voci della gente, della tanta gente,
che viene a trovare i feriti nell'ospedale di Emergency. Attendono il
loro turno per essere perquisiti e poter entrare, come da regola, senza
armi.
Ora si sente anche sparare....certo, sparano in aria per festeggiare,
io inizio a preoccuparmi. Chiedo al nostro responsabile delle guardie di
rafforzare la sicurezza....capisce al volo, non vorrei mai che in
questo trambusto qualcuno si dimenticasse di posare le proprie armi al di
fuori dell'ospedale.

Passo in pronto soccorso: finora niente feriti, solo un ferito da mina
stamattina e due ustionati. Gli infermieri sono tesi, sanno bene per
esperienza che le pallottole sparate per aria prima o poi cadono per
terra, non si dissolvono come per magia, e prima o poi qualcuno beccano.
Mi arrivano notizie da Erbil: quattro feriti, un bambino grave, tutti
per "festeggiamenti". E poi arriva la notizia che non volevamo....poco
lontano dall'ospedale un bambino di 8 anni morto per un proiettile in
testa. Lo hanno lasciato sulla strada, non hanno nenanche tentato di
portarlo da noi.
Cerco di razionalizzare, mi distraggo guardando la gente che balla
fuori dai cancelli, che piange, che ride, le macchine che passano con i
soldati che sventolano bandiere e fucili.....la guerra e' finita.

Sulaimaniya, giovedě 10 aprile 2003 ore 17.00
La guerra continua. E forte. Stanotte riceviamo 13 feriti, altri 6
stamattina, un'altra decina in arrivo dai nostri FAP,s. Tra loro una
giovane donna arrivata giŕ morta. Molti peshmerga, qualche civile, e anche
tre combattenti irakeni. Mentre scrivo queste ultime righe approfitto
per fumare avidamente una sigaretta. Gli infermieri mi informano che
stanno combattendo a Kirkuk, molti feriti arriveranno nelle prossime ore.
Sento Ake al telefono, la situazione a Erbil e' la stessa. Guardo la mia
divisa sporca e mi impongo di cambiarla prima di tornare in pronto
soccorso. Cerco un te' e accendo un'altra sigaretta, la guerra e' finita,
forse, i feriti no.

Mario
Emergency Surgical Centre - Sulaimaniya
----
Mentre mettiamo on-line questa lettera di Mario, Ake da Erbil ci
comunica che nella notte sono stati ricoverati 13 feriti da arma da fuoco,
vittime degli scontri contro le forze governative a Kirkuk.

Il team di Emergency arriva a Bagdad

Il team di Emergency partito ieri l'altro da Amman (v. news sul sito) č
arrivato oggi, venerdě 11 aprile, alle 13 (ora italiana) a Baghdad. Con
il team anche un cargo con 30 tonnellate di medicinali e materiale di
consumo per chirurgia di urgenza
La frontiera tra la Giordania e l'Iraq č stata attraversata la mattina
del 10 aprile (alle cinque ora locale) e ha raggiunto in tarda serata
Karbalŕ, a 100 km a sud di Baghdad. Ripartito questa mattina, il team ha
raggiunto la capitale irakena dopo sette ore di viaggio.

"Non ho mai visto niente del genere" queste le prime parole di Gino al
telefono "La cittŕ č in preda alla anarchia totale. Le porte dei
palazzi vengono sfondate dai tank e poi tutto viene abbandonato a se' stesso.
La citta' e' cosi' preda di migliaia di sciacalli che compiono razzie,
mentre la popolazione rimane rintanata in casa terrorizzata, senza
acqua ne' luce.
Le strade sono invase dal fumo che sale dai palazzi colpiti dalle
bombe. E, per le strade, solo sciacalli. Sciacalli e cadaveri, tanti
sciacalli e purtroppo tanti cadaveri".
"I militari entrati in citta' non pensano minimamente alla sicurezza o
alla sopravvivenza della popolazione, ma solo alla loro. I carri armati
che sfondano le porte lasciano la strada aperta alle migliaia di
saccheggiatori che predano ogni cosa assolutamente indisturbati: ospedali,
palazzi presidenziali ma anche case private, ambasciate, uffici, negozi".

Poi Gino ci racconta del viaggio verso Bagdad "Un viaggio difficile,
massacrante, con frequentissimi posti di blocco militari. Strade chiuse
da auto in fiamme o da filo spinato. Ogni volta, ci si doveva fermare a
trecento metri. E mi toccava scendere e avvicinarmi a piedi con le mani
bene alzate, in vista, in una atmosfera di tensione impressionante".

Da Il Manifesto, 12 aprile 2003

Kerbala, un ospedale in prima linea
Emergency Gino Strada consegna i primi aiuti ai medici della cittŕ. Il racconto di un viaggio allucinante verso Baghdad
di Vauro - inviato a Baghdad


La sensazione di relativa tranquillitŕ che la cittŕ di Kerbala (700 mila abitanti) ci aveva comunicato quando ieri ci siamo giunti al tramonto si rivela completamente errata. Il proprietario di un albergo, chiuso come tutti gli altri, ci aveva comunque offerto ospitalitŕ per la notte e consentito di parcheggiare il camion nel recinto dell'hotel. Verso mezzanotte sentiamo battere violentemente ai cancelli di ferro del cortile dell'hotel. Il proprietario va ad aprire e ritorna visibilmente agitato, accompagnando un gruppo di sei persone: uno di loro, giovane, vestito con un lungo kaftano ed una kufia al collo, ci viene presentato come una autoritŕ religiosa, altri due come medici. Per la nostra sicurezza, sostengono, ci invitano a lasciare subito l'albergo e a seguirli con il camion e le auto all'ospedale della cittŕ, dove dicono, saremo ospitati in condizioni migliori. Il proprietario č chiaramente impaurito e insiste, scusandosi, perché noi si decida di seguire il loro consiglio. Non abbiamo idea di chi realmente siano e la paura del proprietario dell'albergo certo non ci tranquillizza, comunque non c'č molta scelta. Usciamo. Fuori,la luce dei lampeggianti blu di due ambulanze con la mezza luna rossa fende l'oscuritŕ della notte, resa piů fonda dal fatto che la cittŕ č senza luce. Le seguiamo con le auto e il camion (l'altro camion ha avuto un guasto ed č fermo, in attesa di riparazioni, sulla strada per Kerbala) e, fortunatamente, i nostri timori si rivelano infondati quando con sollievo varchiamo i cancelli dell'ospedale della cittŕ illuminato grazie a dei generatori. Passeremo lě il resto della notte.

Kerbala č una cittŕ ormai senza nessuna forma di governo. Nessuno garantisce piů nemmeno i minimi livelli di sicurezza, scomparse le autoritŕ governative, scomparsa la polizia. Quando lo incontriamo, il mattino seguente, il chirurgo dell'ospedale, il dottor Alě Aziz, si sfoga: «Si puň essere uccisi in casa propria per dieci dinari e nessuno puň farci niente. Gli americani stanno fuori dalla cittŕ, non si preoccupano di costituire una qualche forma di amministrazione civile. Io sono un medico, non un politico, non amavo certo Saddam Hussein, ma qualsiasi governo č meglio del non governo, hanno invaso il nostro paese, non credo sia una cosa giusta ma a questo punto devono finire il lavoro, assumersene le responsabilitŕ». Il dottore č preoccupato per il futuro: «Dodici anni di embargo e ora questa guerra, credo che vogliano distruggere, azzerare la nostra civilizzazione, farci odiare l'uno contro l'altro per finire di disgregare il paese. Prego Dio che sparisca tutto il petrolio e resti solo terra buona per l'agricoltura». Aziz ci conduce a visitare l'ospedale, una struttura grande e ben costruita, č evidente che si trattava di un buon ospedale ma embargo e guerra sono riusciti a trasformarlo in un luogo ai limiti della fatiscienza. Le corsie sono piene di feriti da schegge o da proiettile che giacciono in brande prive di lenzuola, le garze sporche di croste di sangue. Un odore nauseabondo permea tutto, anche se alcune donne velate di nero si affannano a passare acqua sporca sui pavimenti. «Ci manca tutto - spiegace il dottore - dai medicinali al materiale di consumo sanitario, non abbiamo mai ricevuto nessun aiuto, nemmeno una Aspirina». Gino Strada si accorda per consegnare a questo ospedale una parte del carico di aiuti che stiamo trasportando con il convoglio di Emergency che trova cosě giŕ nel nostro primo giorno in Iraq una sua destinazione utile. Altri accordi vengono presi per avviare una collaborazione tra Emergency e l'ospedale di Kerbala.

Saja Rahaim ha 8 anni. Due giorni fa era andata al fiume a prendere l'acqua per la sua casa, lě ha trovato qualcosa, un oggetto a forma di parallelepipedo, poco piů grande di una scatola di fiammiferi, lo ha raccolto e portato a casa, per giocarci. La sua famiglia era a pranzo quando l'oggetto č esploso. La cluster bomb ha trovato le sue vittime. Sono rimasti uccisi il fratellino e la sorellina di Saja, ferito il padre e Saja la vediamo lě, sul lettino di ospedale, una coperta sgualcita addosso, schegge di metallo nel petto, nel fegato, nelle gambe. Nel letto vicino suo padre, su una stuoia adagiata sul pavimento accanto sua madre tiene in braccio un neonato di cinque mesi anche lui ferito, per fortuna non gravemente, dal «giocattolo» di Saja. La corsia č piena di feriti da cluster bomb. «Ne arrivano due o tre ogni giorno, ma la maggior parte muore», ci dice il dottor Aziz. Saja ci guarda con grandi occhi neri, il viso incrostato di sangue, il dolore non ha spento la sua curiositŕ di bambina.

Ci portiamo dietro il suo sguardo quando da Kerbala ci dirigiamo sulla strada per Baghdad. E' tutto lě l'orrore della guerra, piů che nelle voragini per i missili sull'asfalto, le carcasse bruciate di automezzi, i bossoli di proiettile di artiglieria e la trincee di sacchetti di sabbia abbandonate che costituiscono il paesaggio che vediamo scorrere dal finestrino delle nostre auto. Il ponte sul fiume č distrutto, dobbiamo deviare. Due elicotteri americani sorvolano bassi la periferia di Kerbala, l'aria spostata dalle loro pale muove a tratti le foglie delle palme.

Per oltre 90 chilometri non incrociamo nessun posto di blocco americano, ne incontreremo uno solo alla estrema periferia di Baghdad, dopo aver attraversato un agglomerato di case nella cui via principale, gremita di gente, contiamo piů di una decina di carri armati esplosi, alcuni anche americani, tracce di incendio dovunque. Blindati, rotoli di filo spinato. Qui i marines, tra loro anche alcune donne, hanno cucito sulla rivestitura mimetica degli elmetti un cuore nero, forse l'emblema del loro battaglione. Dopo il check point si distende una vera e propria cittŕ nella cittŕ formata da centinaia di mezzi militari, carri armati e quant'altro: quella che si affaccia davanti a a noi č un'enorme base americana. Il cielo nero di fumo e polvere riempie l'aria di un odore acre e nauseante, annunciando la porta dell'inferno di Baghdad. L'ampia strada a quattro corsie che dall'aeroporto conduce al centro č ridotta ad un ammasso di detriti, carcasse di auto civili e mezzi militari bruciati dovunque. Gruppi di uomini entrano ed escono saccheggiando le macerie o le poche costruzioni ancora intatte, altri tirano carretti carichi di ogni genere di masserizie: esseri umani,pezzi di ferro, materassi. Le poche auto scorrazzano senza regole, sventolando ai finestrini bandiere bianche. Stracci bianchi sventolano anche i civili, uomini e donne che si aggirano in questa desolazione, al passaggio dei blindati americani, piů per non farsi sparare che per festeggiarli. Da uno dei tanti grovigli di lamiera contorta e bruciata di un'auto spuntano le gambe di un cadavere in stato di putrefazione, la testa e il busto fusi con il metallo, qualcuno frettolosamente ci ha gettato sopra una coperta con un residuo di pietŕ.

Proprio come in un girone di inferno dantesco il caos e la devastazione aumentano avvicinandosi al centro della cittŕ, scheletri di costruzioni distrutte, cavi dell'alta tensione spezzati al suolo, palazzi ancora in fiamme che aggiungono colonne di fumo denso e nero a quello che giŕ impregna l'aria, in questa nebbia venefica, si muovono le figure dei saccheggiatori, come fantasmi disperati, ognuno prende ciň che trova o se lo contende anche con le armi. La cittŕ č devastata, ridotta ad un allucinante panorama da day after nucleare. Gli americani si limitano a presidiarla e a bombardarla con i tank lŕ dove ci sono ancora sacche di resistenza dei feddayn, indifferenti al caos totale ed alla disperazione in cui č piombata la popolazione, separati da quest'ultima dalle pesanti corazze dei loro carri armati.

I colpi di arma da fuoco dei combattimenti si confondono con quelli dei regolamenti di conti tra le bande di criminali che imperversano in molte zone della cittŕ. I linciaggi sono all'ordine del giorno. Tutti gli ospedali sono stati saccheggiati e non sono piů in grado di fornire la seppur minima assistenza. Forse si vuole che Baghdad affoghi nella sua stessa disperazione, nella folle idea che siano piů controllabili una cittŕ e un paese totalmente annichiliti e disgregati dalla violenza, dalla fame e dalle epidemie? Una cosa sola č certa, il numero dei morti di questa guerra č destinato da subito ad aumentare vertiginosamente e se mai verrŕ il tempo di farne un bilancio non la si potrŕ non considerare uno dei piů grandi crimini del nostro secolo. Nell'indifferenza generale, in un angolo della strada un bambino di non piů di 7 anni sta giocando con una granata inesplosa RPG. Nessuno gli dice niente. E' una scena normale oggi a Baghdad.
 
Da C@C@O

La guerra di nessuno

Il Congo e' un paese immenso, grande circa 7 volte l'Italia. E' abitato da circa 48 milioni di persone che sono certamente considerate gli esseri umani piu' insignificanti della terra.
Gia' sono in pochi a sapere che il Congo esiste e si fa fatica a distinguerlo dalla Repubblica del Congo (Brazeville).
Noi parliamo della Repubblica Democratica del Congo che fino agli anni Sessanta era dominio dei belgi. Anzi, per lungo tempo e' stato esattamente proprieta' personale del re del Belgio che lo possedeva, con esseri umani, animali e piante, come qualcun altro potrebbe possedere un giardino pensile con fiori e farfalle.
La Repubblica Democratica del Congo e' talmente derelitta che ha pure un nome incerto perche' negli anni Ottanta si chiamava Zaire. Comunque questa disgraziata repubblica del centro Africa non e' un posto insignificante: c'e' l'oro, ci sono i diamanti, i legni pregiati, c'e' il petrolio e ci sono i piu' grandi giacimenti del mondo di coltan, minerale sconosciuto ma essenziale per costruire telefonini e computer e quindi e' una materia prima strategica per il futuro dell'umanita'. Quindi avremmo dovuto sentir parlare in altre occasioni del Congo.
Invece no.
Ci siamo stupiti di scoprire, leggendo l'ultimo numero del settimanale "Internazionale", che laggiu' c'e' la guerra. Qualcuno dira': va bhe ma li' e' tutta una guerra... Come si fa a ricordarsene i particolari.
A dir la verita' anche noi ne sapevamo poco... Ricordiamo solo qualche notizia di sfuggita... Ma la realta' e' che in Congo, nella Repubblica Democratica del Congo, non c'e' la solita guerricciola che semina qua e la qualche morto collaterale...Qui la guerra e' iniziata nell'agosto 1998 e ha provocato piu' di 3 milioni di morti. Qualche pignolo precisa 3 milioni e 500 mila morti. E nessuno ha detto niente?
Abbiamo pensato che ci fosse un errore e abbiamo iniziato una ricerca in Internet. Google, uno dei migliori motori di ricerca, digitando "guerra Congo" ci ha offerto una decina di risultati per lo piu' in spagnolo. Digitando in francese (i congolesi erano colonia belga) abbiamo trovato una ventina di link. In Inglese piu' di 4000.
Cosi' abbiamo scoperto due cose:
1) Nella Repubblica Democratica del Congo c'e' veramente una guerra che dura da 5 anni e ha fatto piu' di 3 milioni di morti.
2) Non gliene frega niente a nessuno (o quasi).

Ma come e' potuto succedere?
Perche' questa indifferenza dell'Europa? Perche' almeno noi democratici e pacifisti non ci siamo mobilitati?
Continuando la ricerca abbiamo scoperto che qualcuno si e' dato da fare: il solito Alex Zanotelli, il frate comboniano che disse: "Voti ogni volta che fai la spesa", alcune associazioni cattoliche, il mensile Nigrizia, Amnesty International, Human Right Watch, Carta, qualche articolo qua e la e' uscito, almeno sui giornali della sinistra (www.warnews.it pubblica decine di articoli).
Ma non c'e' stata certo la mobilitazione che si e' vista per l'Iraq...
Perche'? Perche' la tv non ne ha parlato, dira' qualcuno. Ed e' indiscutibilmente cosi'.
Se la tv non ti sbatte in faccia le bombe e' come se non ci fossero. Il movimento pacifista non ci fa una bella figura: riesce a mobilitarsi solo se glielo dice la tv. Bhe ma scusate... ci hanno ammazzato sotto il naso 3 milioni e mezzo di persone e non ce ne siamo neanche accorti?
E' un po' agghiacciante.
Qualcuno dira': ma e' colpa di D'Alema, Fassino, Rutelli, Bertinotti... Loro sono i leader, loro dovevano tenersi informati e avvisarci di questo genocidio. Loro, dovevano occupare il parlamento, indire cortei, blocchi stradali, scioperi generali, digiunare.
E' vero. E' veramente avvilente che i grandi leader della sinistra si accorgano delle guerre solo quando lo dice la televisione e i pacifisti scendono in piazza, quindi loro se ne accorgono. Ma questo non basta per assolverci: uno sparuto gruppo di volontari e di cattolici missionari da 5 anni cerca di informarci di questo genocidio e nessuno li ascolta.
Andiamo avanti a cercare di indagare su questo genocidio...spaventoso.
La Repubblica Democratica del Congo e' letteralmente decimata da una mortalita' infantile del 98 per mille. L'aspettativa di vita e' di 45 anni per i maschi, 51 per le femmine.
Il livello di inflazione del 358% annuo.
Sono dati sconvolgenti e assolutamente credibili visto che li troviamo sul sito della CIA: http://www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/cg.html
Vi interessera' anche sapere che nella guerra sono coinvolti Rwanda, Uganda, Burundi, Angola, Namibia, Zimbabwe, Sudan. Ognuno di questi stati appoggia una delle fazioni coinvolte nel massacro. Qualcuno tiene anche contingenti militari all'interno del Congo. Ci sono le truppe Governative, brandelli delle truppe Hutu che massacrarono i Tutzi, gruppi armati Hutu, guerriglieri anti governativi congolani a loro volte divisi in fazioni e, infine, una fiorente criminalita' che contrabbanda oro, prostitute e diamanti. Poi ci sono i mercenari assoldati dalle compagnie petrolifere. Questi congolesi ce le hanno proprio tutte: pure il petrolio. Come se non bastasse ultimamente e' esploso anche un vulcano... per l'assoluta mancanza di acqua potabile e' scoppiato il colera e il virus Ebola ha fatto almeno 1000 morti. C'e' da chiedersi come mai, con tutta questa ricchezza e tutta questa disperazione, nessuna grande potenza abbia deciso di fare qualche cosa per la Repubblica Democratica del Congo.
Non servirebbe molto dato che la maggioranza dei morti ammazzati sono stati uccisi a colpi di macete.
Li' di certo non hanno ne' armi chimiche, ne' artiglieria, non hanno neanche gli aerei. Si ammazzano a piedi. Tristi come i congolesi sono solo i sudanesi. Infatti anche nel Sudan c'e' la guerra. Meno grave di quella del Congo democratico. "Solo" 2 milioni di morti e 4 milioni di profughi (i dati sono sempre della Cia http://www.cia.gov/cia/publications/factbook/geos/su.html ).
E a realizzare 'sto massacro hanno impiegato venti anni giusti.

E dove eravamo noi con le nostre bandiere di pace?

Tutto questo discorso e' perche', se vogliamo essere coerenti e credibili, non possiamo permetterci di distrarci e abbioccarci davanti alle continue nefandezze del mondo.

Dobbiamo prendere atto che questa mobilitazione contro la guerra in Iraq ha senso solo se e' l'inizio di un impegno vero contro tutte le forme di guerra e di violenza. Altrimenti rischiamo di ritrovarci come le marmotte che si svegliano solo
all'esplodere di particolari suoni, odori e luci colorate.

Dario Fo, Franca Rame, Jacopo Fo

Per saperne di piu' sul massacro

Petizione in difesa del dissenso cubano.
A Cuba e' in corso una campagna repressiva senza precedenti, con decine (77) di condanne fino a 23 anni di carcere, inflitte a chi ha la colpa di opporsi e chiedere un'apertura democratica.
Secondo Elizardo Sanchez, leader dei dissidenti cubani "Questa forma di repressione e' la peggiore che si ricordi nella storia di Cuba, senza escludere l'era coloniale. Mai prima d'ora tanta gente e' stata cosi' severamente punita per dei crimini di pensiero. Sono veramente prigionieri di coscienza".
Crediamo che sia importante far sentire al governo cubano la pressione internazionale anche attraverso gesti semplici come quello di indirizzare una e-mail.
Abbiamo pensato che si potrebbero indirizzare a Granma, organo del Comitato Centrale del Partito Comunista Cubano: granma@teleda.get.tur.cu
Mandate la mail in copia anche a noi cosi' che si possa avere un riscontro: info@cacaonline.it.
Il testo che vi proponiamo di inviare e' il seguente:

"Liberta' per Raul Rivero, condannato a 20 anni di prigione, Marta Beatriz, Roque e Hector Palacios e tutti detenuti per reati d'opinione.
La repressione del dissenso disonora la rivoluzione cubana."

"Su cio' di cui non si puo' parlare, non si deve tacere... ma si deve scrivere"

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